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Cristina Picariello

Cristina Picariello has 8 articles published.

Consultant di Praxis Management, Contributor di News & Customer Experience e insegnante della scuola secondaria di primo grado. Classe 1992, si laurea in Filologia italiana a pieni voti con lode presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Dopo un periodo di insegnamento, ha fatto esperienza all'estero come collaboratrice a un progetto a sostegno dell'infanzia vulnerabile in Uganda per tutto il 2018, dedicandosi alla formazione dei docenti di una scuola locale. È appassionata di educazione, formazione, letteratura, arte e musica.

DA DOVE NASCE IL GENIO?

La prima e ultima cosa che sarà richiesta al genio è l’amore per la verità. (J. Goethe)

Il Genio Collettivo racconta di una genialità condivisa e dell’importanza di un mindset comune per la comunità lavorativa creata nella propria impresa, di qualunque tipo essa sia. La prima e più importante cosa che una comunità desiderosa e capace di cambiare deve fare per innovare è partire dai dati. Partire dai dati però non è così semplice come sembra. I dati parlano quando sono letti alla luce di un’ipotesi, sanno dimostrare se stiamo stiamo camminando nella direzione giusta oppure farci fermare per tempo quando indicano che stiamo sbagliando. Eppure c’è qualcosa che viene prima. Per imparare a partire dai dati bisogna volerli ricercare, bisogna voler fare la fatica di mettere in discussione ciò che pensavamo di sapere già. In altre parole: bisogna amare la realtà per ciò che è e non per ciò che pensiamo essa sia. Bisogna amare la verità, più delle nostre idee. Il genio, anche quello collettivo, è colui che ama la verità e va incontro alla realtà per conoscerla fino in fondo.

SCIACQUA, SCIABORDA, SCROSCIA, SCHIOCCA, SCHIANTA…

…anche in piazza a Seoul!

Wave (letteralmente ‘onda’) è la strabiliante installazione dello studio di design D’strict posta nel cuore di Seoul. Raffigura un’onda gigantesca che si infrange con forza contro i vetri di un acquario, accompagnata da un sonoro scrosciare di flutti che avvolge i passanti in un’esperienza davvero immersiva. Quest’illusione anamorfica, esempio eccellente di urban design, viene proiettata su uno schermo LED delle dimensioni di 81 metri di larghezza e 22 metri di altezza, installato davanti al centro commerciale Coex Artium nel noto quartiere Gangnam. A partire dagli anni novanta si è sviluppata la neo wave, un fenomeno di crescente fama della cultura sudcoreana nel mondo: l’opera firmata D’strict vuole celebrare proprio quest’onda di popolarità culturale.

Quando una compagnia o un’azienda progettano un’installazione urbana a chi pensano? I lampioni in una piazza, le panchine dentro un parco, i cartelloni pubblicitari sulle facciate di qualche palazzo in centro: a chi pensano gli amministratori, i progettisti, gli operai? La risposta, non così scontata, è: il passante. Uomini, donne e bambini che camminano per le strade sono i fruitori delle pubblicità, della loro bellezza e originalità, della luce di un lampione o del muretto vicino alla gelateria su cui sedersi con gli amici in una sera d’estate. Eppure dimenticarsene è facile.

L’arte stessa, popolare per eccellenza, è diventata sempre più esclusiva dentro i grandi musei con costi elevati o collezioni private. Chi pensa ai passanti? Viene subito in mente il misterioso street artist inglese Banksy, celebre in tutto il mondo per le sue opere irriverenti e soprattutto… alla portata di tutti. Sui muri, nelle strade o dentro le metropolitane, la sua arte e i suoi messaggi di satira e protesta sono alla portata di tutti, pensati per incontrare chi cammina per le strade e sorprenderlo con un regalo inaspettato e immeritato, denso di significato.

I MILLENNIALS PREFERISCONO STARE A CASA

Netflix and chill è uno stile di vita

Sito in cui vai, definizione che trovi. Ma se cercassimo di definire chi sono i Millennials (o Generazione Y), potremmo con ragionevole certezza dire che sono i giovani nati più o meno tra il 1980 e il 1995, che amano la tecnologia e molto probabilmente soffrono di un difetto di autostima.  Qualche anno fa Simon Sinek parlava di loro appassionatamente, criticandone la pigrizia, il narcisismo, l’impazienza e la difficoltà nelle relazioni sociali, salvo poi scusarli perché l’origine di tali caratteristiche era da ricercare – secondo lui – nell’educazione ricevuta, in internet con la sua cultura del tutto e subito e nell’ambiente lavorativo in cui si trovano inseriti.

Qualche mese fa, un articolo uscito su Quartz ha riportato alcune notizie allarmanti che vedono i Millennials preferire di gran lunga una serata sul divano davanti a Netflix (soli o in compagnia di qualche amico) piuttosto che fuori a bere un drink. Numerose ricerche confermano questo trend, avvalorando la tesi che vede i trentenni di oggi scegliere di passare il tempo in casa, perché uscire è più costoso, più faticoso e più rischioso. Tinder, Facebook, Instagram, Amazon: infinite app e mezzi tecnologici ci permettono di mangiare, bere, conoscere nuove persone, condividere i nostri pensieri, acquistare ciò di cui abbiamo bisogno senza uscire di casa. Andare fuori implica, spesso, spese più elevate, fatiche maggiori nel prepararsi, spostarsi, entrare in relazione con persone e ambienti nuovi, magari che non ci piacciono e a cui non eravamo preparati. Stress.

Il periodo di lockdown prima e di riapertura poi non hanno certo giovato a questo stato di cose. La quarantena ci ha costretto entro le mura domestiche e ciascuno ha dovuto fare i conti con le difficoltà di questa scelta obbligata, scoprendo al tempo stesso la comodità di molti servizi (ad esempio il delivery). Con la riapertura siamo tornati in ufficio, al parco, a godere di una cena fuori e di una passeggiata in centro; eppure molti ancora preferiscono la cautela, una cena a casa, un film sul divano, un buon bicchiere di vino attorno a un tavolo chiacchierando con gli amici (magari più buono di un costoso cocktail in qualche bar!). Gli introversi Millennials gioiscono.

Anche i trend di acquisti confermano la preferenza di questa categoria, infatti l’online è preferito rispetto ai negozi fisici, la tecnologia e soprattutto gli smartphone sono ai primi posti, insieme alle app e ai giochi virtuali, nelle scelte di spesa da parte della Generazione Y. Sono pigri? Asociali? Forse. Sul sito di e-commerce Etsy esiste una categoria di acquisto di magliette e accessori “Antisocial”, che celebra questo gusto eremitico e fiero. Eppure sono i più attivi sui social network (Facebook e Instagram in particolare) e condividono più dei giovanissimi le loro esperienze in rete. Sono la generazione dei paradossi e forse il fatto di aver raggiunto la maggiore età in un periodo di crisi economica li ha resi più attenti alle spese, al risparmio… I motivi sono vari e molteplici. La verità è che il mondo fuori dalle mura domestiche può fare paura, il lavoro è spesso incerto, l’autostima scarsa e le relazioni autentiche sono difficili da coltivare. Chi è venuto prima ancora spadroneggia nel mondo del lavoro e trovare il proprio posto è sempre più complesso.

Di che cosa c’è bisogno? Di maggior coraggio, forse. Di fidarsi di più del mondo fuori, anche. Forse, però, c’è bisogno anche di proposte più adeguate, locali accoglienti e offerte che incontrino il desiderio di prendersi cura di se stessi espresso in modi diversi da questi giovani non più giovanissimi. Chi accetta la sfida? Venite a cercarli. E comunque nello stare a casa non c’è niente di male, ogni tanto.

FALORIA SMART WORKING

Lavorare nel cuore delle Dolomiti

Le vacanze sono fatte per riposare, ma anche per stare insieme, condividere nuove esperienze, esplorare posti nuovi e incontrare nuove persone. Il periodo che stiamo affrontando rende purtroppo difficili alcune di queste attività. In effetti non è scontato poter andare in vacanza per la necessità di recuperare il lavoro perso durante i mesi del lockdown, così come non è semplice creare momenti di socialità per le disposizioni vigenti in merito al distanziamento sociale.

Come affronta queste problematiche il Faloria Mountain Spa Resort, nel cuore delle Dolomiti? Innovando! Il Team Faloria non è stato con le mani in mano, ma ha usato i mesi di chiusura per lavorare sulle nuove esigenze e necessità post-emergenza. In questa tempo così incerto, i clienti cercano sicurezze ma desiderano anche ritornare alla normalità. L’idea del Faloria è molto semplice: con le dovute precauzioni e consapevoli delle necessità attuali, si può tornare alla normalità garantendo ai clienti cura e riposo, senza dimenticare delle loro necessità lavorative. Il progetto Faloria Smart Working risponde perfettamente a questi criteri.

Per il mese di luglio la nuova Veranda del Resort è stata adibita ad un esclusivo spazio dedicato ai lavoratori che non possono interrompere le attività lavorative, ma desiderano farlo uscendo dalle mura domestiche e immergendosi nel magnifico scenario delle Dolomiti. Sono state allestite delle postazioni individuali, distanziate e sanificate, accessibili gratuitamente su prenotazione delle 7 alle 23 tutti i giorni; in più l’hotel si è dotato di una copertura di rete 4G rinforzata e di una connessione Wi-Fi veloce per rendere il lavoro a distanza completamente funzionale; infine, schermi e tastiere sono a disposizione dei clienti che ne faranno richiesta. La squadra Faloria dimostra grande attenzione ai propri clienti, alle esigenze attuali e alla necessità di ripartenza. Così fa una proposta innovativa e accattivante, dando la sicurezza necessaria, a chi ne vorrà fruire, di poter lavorare in totale sicurezza e autonomia.

Possiamo davvero dire che c’è bisogno di esempi come questo, da studiare e da cui imparare, per rimettersi in gioco con audacia e originalità, partendo dalla circostanza attuale come occasione per poter migliorare e ripensare a ciò che offriamo, come prodotto o servizio, e a come lo offriamo!

SKIPPER ZUEGG: QUANDO IL MARKETING SI FA (DAVVERO) RELAZIONE

 “Stai veramente leggendo una bevanda?”

SEI SERIO? Stai leggendo una bevanda? Cioè, stai leggendo una bevanda quando potresti leggere una storia vera o parlare con persone reali o vedere com’è la vita là fuori? Dai, vai a viverla e, se non ti dispiace, portaci con te. E se proprio non vuoi uscire, seguici sui social. Noi per te lo faremmo.”

Ecco il contenuto del nuovo e sorprendente messaggio impresso sui succhi di frutta Skipper Zuegg. Alzi la mano chi non si è mai soffermato a leggere il retro di qualche bottiglia, di succo o di shampoo che sia, tanto per passare il tempo o semplicemente sovrappensiero. Immaginerete allora la sorpresa di trovare un messaggio così, rivolto proprio a voi, beffardo e irriverente, che vi invita a uscire di casa portando con voi il loro prodotto. I social in questi giorni impazziscono per la condivisione di questo messaggio, segno di una strategia di marketing davvero vincente.

La multinazionale Zuegg, specializzata nella lavorazione della frutta dal 1860, ha creato la linea Skipper alla fine degli anni ottanta per proporsi come leader nella produzione di succhi di frutta 100%. Da allora ha preso il via una storia di successi e leadership nel settore, in Italia e in Europa. Ma prodotti di qualità, si sa, non sono sufficienti ad accontentare clienti che, al giorno d’oggi, hanno così tante possibilità di scelta da non sapere più dove andare a parare. Ecco che allora entra in gioco la straordinaria strategia pubblicitaria indetta da Skipper attraverso il sito e i social media. Che cosa si può regalare di davvero unico a clienti sempre connessi, che ricevono proposte di prodotti di ogni genere e sempre nuovi? Skipper ha proposto i suoi prodotti, ma attraverso un rapporto personale e speciale con i suoi clienti.

Aprendo le pagine social (Facebook, Instragram, ecc.) si scopre che il social media manager svolge egregiamente il suo lavoro rispondendo assiduamente ai commenti lasciati dai clienti, che magari chiedono succhi gratis, oppure sconti e regali, e lo fa con ironia e schiettezza… come farebbe un amico! Per esempio, dopo numerose richieste di omaggi e succhi in regalo, l’azienda ha proposto “Il succhino di Cittadinanza”: 500 succhi in omaggio agli utenti che potevano sfidarsi tramite il sito internet compilando un questionario.

Alla base di questa strategia sta un’idea ben riassunta dall’azienda, che dice: “Sapevamo che ci avremmo rimesso ma nulla vale al confronto della soddisfazione di tutte quelle persone talmente affezionate al brand da contattarci ogni giorno per chiedere un succo gratis”. Ecco il trucco per conquistare consenso, popolarità, affetto e, soprattutto, fedeltà: puntare sul rapporto con i nostri clienti, immedesimarci in loro e suscitare il loro entusiasmo per incollarli al nostro brand… continuando a sorprenderli!

CAMERA SEARCH E SHOPPING 3.0

Le novità di Rinascimento per la cliente italiana

Le sfide aumentano ed è sempre più importante prendersi cura dei propri clienti, accompagnandoli passo dopo passo con cura e attenzione. Rinascimento, protagonista del Made in Italy, ha introdotto nella sua offerta online due servizi davvero innovativi.

Il primo si chiama Camera Search. Quante volte vi è capitato di vedere un bel vestito navigando in rete, su qualche personaggio famoso, o semplicemente girando per il centro? Basta una fotografia, un’immagine scaricata da internet o trovata su qualche giornale. Inserendola nel motore di ricerca all’interno del sito in pochi secondi vi compariranno outfit firmati Rinascimento simili a quello che stavate cercando! Colori, forme, tagli… ciò che desideri, in stile Rinascimento.

Poi c’è il nuovo servizio Shopping Online 3.0. Non tutti erano abituati a comprare online e certamente, anche per chi sapeva già destreggiarsi fra cataloghi e ordini, non sempre è facile scegliere forme, tessuti e taglie adatti alle proprie esigenze. Ecco che allora, dal lunedì al sabato, è possibile prendere un appuntamento con le consulenti che – nella modalità preferita dalle clienti – rispondono alle domande e danno consigli d’acquisto. Colpisce poi l’attenzione di estendere l’orario di chiamata fino alle 21.00, per permettere davvero a ogni cliente di prendersi un momento per sé dopo il lavoro e le varie incombenze della giornata.

Innovazione, semplicità, cura e attenzione. Sono questi gli ingredienti che Rinascimento ha saputo riscoprire per cementare e accrescere la fiducia dei propri clienti, rispondendo ai loro bisogni in modo preciso e accattivante!

ZOOM TI ADORO… ANZI, TI ODIO!

Breve inchiesta sull’utilizzo delle piattaforme per videoconferenze: sono il futuro che speriamo?

Con lo scoppio della pandemia di Covid-19, l’utilizzo delle piattaforme di videoconferenza digitali è aumentato esponenzialmente in tutto il mondo. Tra le più note troviamo Microsoft Teams, Zoom, Google Hangouts Meet, Skype, Jitsi Meet. Zoom, in particolare, si è affermata tra le applicazioni più scaricate dagli utenti: se nei primi di febbraio il numero di download giornalieri si attestava intorno ai 171 mila, il 25 marzo se ne contavano ben 2,41 milioni, con una percentuale di crescita pari al 1.300% (dati di Apptopia, riportati da VentureBeat). Nel complesso Zoom è passato da avere circa 10 milioni di iscritti, ad oltre 200 milioni in soli tre mesi.

Distanziamento sociale, didattica online, smartworking, telelavoro: probabilmente ciascuno di noi può testimoniare di aver usato almeno una volta queste piattaforme per mettersi in contatti con colleghi, amici o familiari. Qual è il giudizio finale? Non possiamo più farne a meno? Oppure non vediamo l’ora di poterci liberare di questo strumento?

Abbiamo chiesto a due utenti di raccontarci la propria esperienza. Voi da che parte state?

ZOOM TI ADORO!

Michele (nome di fantasia), 38 anni, lavora in una grossa compagnia che organizza eventi, con partner in tutto il mondo e sede a Milano. Gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza, durante il periodo del lockdown, con il lavoro in veste digitale.

Hai lavorato in smartworking durante questo periodo? Che strumenti hai usato?

Fin dall’inizio della quarantena il mio ufficio si è mobilitato per trovare modalità alternative di organizzare eventi e riunioni. Abbiamo tentato l’utilizzo di due o tre piattaforme differenti, finché non abbiamo scoperto Zoom e lo abbiamo adottato come strumento principale. Per chi organizza eventi è particolarmente importante trovare alternative valide agli incontri dal vivo, perciò abbiamo trovato utile questo strumento, che permette di gestire sia meeting (con numeri più ristretti) che webinar (con centinaia di persone collegate contemporaneamente).

Come utilizzi Zoom?

Sul lavoro ho imparato a gestire la piattaforma come host, cioè come organizzatore delle conferenze e degli incontri. È davvero molto intuitiva e offre strumenti adeguati per controllare nel dettaglio tutti gli aspetti di un evento di grandi dimensioni, gestendo gli imprevisti (microfoni lasciati aperti, ecc.). Comunque il primo approccio che ho avuto con Zoom è stato per motivi personali, infatti lo avevo usato qualche volta per salutare amici e familiari lontani. Successivamente l’ho proposto in ufficio.

Quindi mi pare di capire che per te sia uno strumento molto positivo.

Assolutamente. Inizialmente abbiamo avuto qualche problema di sicurezza (accessi non autorizzati, chiamate esterne…) ma sono stati presto risolti. Inoltre lo abbiamo scelto per la sua facilità di utilizzo! Permette davvero di ammettere e “controllare” moltissimi partecipanti, che nel mio caso è la cosa più importante. Abbiamo acquistato un abbonamento e ottenuto delle licenze e devo dire che, a fronte del costo, sono le migliori che abbiamo trovato sul mercato per i nostri scopi.

Qual è la cosa che apprezzi di più in questo stile di lavoro?

Proprio in questi giorni sto organizzando una conferenza con oltre 300 persone. La gestione di un evento del genere normalmente sarebbe molto complicata, tra gli inviti, la raccolta dei dati e delle adesioni… per non parlare dei costi e delle spese, tra viaggi e hotel. Con Zoom è bastato inserire l’evento in calendario, con tutte le sue specifiche. I partecipanti devono registrarsi e Zoom gestisce autonomamente la raccolta dei dati, che vengono inviati all’organizzatore. Poi si generano credenziali di accesso all’evento personalizzate che arrivano direttamente sulla mail dell’iscritto, scongiurando l’entrata di esterni. Un evento dal vivo rimane insostituibile, ma questa modalità è sicuramente più comoda e meno dispendiosa.

Credi che continuerete a usare Zoom anche al termine dell’emergenza?

Lo stiamo certamente prendendo in considerazione. Soprattutto per le riunioni operative con i nostri partner internazionali, o per quei meeting con big names provenienti da tutto il mondo, che sembravano irraggiungibili, e che invece così possono contribuire direttamente partecipando all’evento online.

 

…ANZI, TI ODIO!

Lucia (nome di fantasia), 36 anni, insegna presso una scuola secondaria di I grado a Milano. Le abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza tra scuola e distanza, attraverso un’altra piattaforma digitale.

Le scuole sono stati i primi luoghi a essere chiusi. Come hanno reagito scuola e ragazzi con il lockdown? Come avete gestito la situazione?

Fortunatamente siamo stati fin da subito preparati a gestire l’emergenza. Nella mia scuola, già da tempo, utilizzavamo la piattaforma Microsoft Teams: tutti i ragazzi e i docenti erano muniti di un account personale, che utilizzavamo per fare qualche lavoro in ambito informatico trasversalmente alle discipline. Comunque molto sporadicamente… Questi account e la piattaforma sono stati subito utilissimi per riprendere i contatti tra professori e compagni di classe, abbattendo la distanza. Questo non ha tolto ovviamente la grande difficoltà di tutti noi, soprattutto dei ragazzini più piccoli, che non sapevano gestire questo strumento e che – fortunatamente – si sono subito resi conto che la scuola a distanza non si può fare davvero.

In che senso? Come utilizzate Teams per le lezioni?

Ci sono diversi canali separati per le varie materie in ogni classe, noi professori ci colleghiamo per qualche ora alla mattina, facendo l’appello e poi lezioni in diretta oppure videoregistrate e caricate per i ragazzi da guardare. Il problema è che la scuola è un rapporto tra persone, è da lì che passa l’educazione… Come faccio a educare i ragazzi, a stare in rapporto con loro, se ne vedo solamente quattro alla volta e parlare senza sovrapporsi l’uno all’altro è praticamente impossibile?

Insomma: Teams, non ti sopporto più! O sbaglio?

Non sbagli… Stare davanti a un computer per ore ed ore è stancante, me ne accorgo su di me ma lo vedo anche nei ragazzi, che non riescono a restare concentrati per molto tempo. Molti fanno ancora fatica a gestire l’aspetto tecnologico, fare test e verifiche direttamente online, svolgere i compiti (sempre appiccicati al computer), caricarli su un Blocco note condiviso con l’insegnante per farli correggere… Ultimamente Teams ha permesso di poter visualizzare fino a 9 partecipanti in contemporanea ed ha inserito la modalità “alzata di mano” per cercare di ordinare le lezioni, ma l’anno scolastico sta finendo e non siamo certo riusciti a lavorare quanto avremmo dovuto. Lo strumento non è male in sé, certamente è stato fondamentale e sono grata di aver avuto almeno questo, ma adesso non ne possiamo davvero più!

Quindi non vedi un futuro per la famosa DAD (didattica a distanza), grazie a Teams?

Innanzitutto spero che non ne avremo più bisogno e che potremo tornare a scuola a Settembre. So che alcuni vorrebbero continuare a fare riunioni e assemblee, compiti e verifiche, attraverso questo strumento, ma sinceramente non me lo auguro. La didattica si fa insieme alle persone, in presenza… L’educazione passa dalle spiegazioni e dalle lezioni in classe, ma anche dai gesti, dagli sguardi, da come si mangia la merenda insieme e come si gioca a pallone dopo la mensa. Questo non potrà mai accadere davanti a uno schermo!

Lavoro, educazione, riunioni, lezioni: insomma, rapporti. Il famoso distanziamento sociale ci ha, se non altro, aiutato a riscoprire l’importanza dei rapporti che ci costituiscono. Le piattaforme digitali ci hanno aiutato a non perderli, spesso ne hanno riaccesi alcuni che sembravano più difficili da mantenere, ci hanno permesso di continuare a vederci, a salutarci, a farci compagnia, addirittura ci hanno permesso di lavorare e fare scuola! Di questo non possiamo che essere grati. Eppure noi sappiamo bene che cosa significhi fare una riunione seduti attorno allo stesso tavolo, fare un viaggio di lavoro per visitare uno store lontano e incontrare le persone che lo gestiscono, andare a scuola e condividere la lezione con il compagno di banco che ti fa sbirciare gli appunti, poi uscire in cortile all’intervallo per finire la partita di pallone cominciata il giorno prima. I più giovani, quei bambini che hanno iniziato la scuola elementare e dopo pochi mesi si sono ritrovati a casa, potranno dire lo stesso? Siamo così sicuri che, se continuassimo a lavorare in questa modalità, tutti si ricorderebbero del perché incontrarsi faccia a faccia «è insostituibile»? Durante la quarantena ho telefonato spesso alla mia nonna (92 anni) e ci siamo anche potute vedere qualche volta (grazie Zoom!). Un giorno mi ha detto che questa situazione, per lei, era molto peggio della guerra: «…è vero, avevamo paura, c’erano gli allarmi e le bombe… Ma almeno ci potevamo vedere, stare insieme!». Ecco.

IL PARADOSSO STOCKDALE

Come superare una situazione drammatica senza sapere se e quando finirà?

Jim Collins, classe 1958, si è laureato ed ha successivamente insegnato alla Graduate School of Business della Stanford University, dedicandosi a ricerche nel campo delle grandi aziende, studiandone la crescita e i fattori che ne provocano il successo. Nell’ottobre 2001 ha pubblicato il libro Good to Great: Why Some Companies Make the Leap… and Others Don’t (O meglio o niente. Come si vince la mediocrità e si raggiunge l’eccellenza, Mondadori 2007). Frutto di cinque anni di ricerca, il libro è rivolto ai manager di aziende che vogliano trasformare le proprie piccole imprese in grandi colossi, ma insegna anche come applicare alla vita quotidiana le strategie individuate nell’ambito dell’economia aziendale.

Proprio all’interno di questa pubblicazione, Collins racconta di un incontro molto significativo avvenuto durante gli anni di ricerca per la stesura del libro. L’ammiraglio James Stockdale è stato l’ufficiale americano più alto in grado ad essere imprigionato nell’Hanoi Hilton, campo di detenzione di prigionieri di guerra in Vietnam. Durante gli otto anni di carcerazione (dal 1965 al 1973) è stato torturato oltre venti volte, ha sopportato sofferenze atroci e la privazione dei più elementari diritti umani, non sapendo se e quando sarebbe stato liberato né avendo la certezza di sopravvivere e rivedere la sua famiglia. Dopo la liberazione ha raccontato la sua esperienza in un libro intitolato In Love and War, scritto a quattro mani con la moglie.

Collins ha incontrato l’ammiraglio un sabato pomeriggio di primavera nel campus di Stanford e gli ha posto una domanda: come si riesce a sopportare e superare una situazione così drammatica senza sapere se e quando finirà? «Non ho mai perso la mia fiducia su come sarebbe finita» è stata la risposta «Non ho mai dubitato, non solo che ne sarei uscito, ma anche che alla fine avrei vinto io, e avrei trasformato quell’esperienza in uno spartiacque della mia vita. Una vita che, se guardo indietro, non vorrei cambiare» (O meglio o niente, p. 96). Ma la cosa più sorprendente è scoprire chi non ce l’ha fatta a sopportare tale situazione: «Oh, facile» ha risposto Stockdale, «Gli ottimisti». Gli ottimisti: quelli che si dicevano che sarebbero riusciti a uscire entro Natale, poi Pasqua, il giorno del Ringraziamento, e poi ancora Natale… e alla fine sono morti di dolore. Ecco il paradosso Stockdale, come lo chiama Jim Collins: da una parte l’incrollabile fede nella vittoria finale, la certezza che non saremo sopraffatti e sconfitti, tutto andrà bene, pur senza sapere quando; dall’altra un crudo realismo nello stare davanti, giorno per giorno, alle circostanze dolorose e, talvolta brutali, che siamo chiamati ad affrontare. Ma da dove nasce questa fede incrollabile? Da quale pozzo attinge la fiducia nella vittoria finale? La certezza dell’ammiraglio Stockdale risiedeva nella consapevolezza delle proprie risorse, delle proprie capacità, e nella razionale e ragionevole convinzione che il proprio valore fosse più grande della condizione che lo opprimeva, per quanto terribile. Questo lo ha sorretto, generando in lui creatività e risorse imprevedibili.

Da questo paradosso possiamo trarre spunto, come uomini, come donne, ma anche come aziende, organizzazioni e imprese, per affrontare l’odierna emergenza che siamo drammaticamente chiamati a vivere. Siamo certi che torneremo a uscire, a comprare, a vendere e a riunirci dentro i nostri uffici, nelle case degli amici, nei bar e nei ristoranti, nei luoghi dove progetteremo la ripresa della nostra quotidianità. Certi delle nostre risorse, torniamo all’essenziale e potenziamo quelle relazioni tra noi che generano creatività e uno sguardo positivo innanzitutto verso noi stessi. Ma siamo anche pronti ad affrontare la realtà: ci vorranno tempo, fatica e sacrifici. Non accontentiamoci di false speranze, ma cominciamo già ora a costruire su una incrollabile fiducia: nelle nostre risorse, in quelle dei nostri collaboratori e soprattutto nella competenza di coloro che ci guidano e assistono in questo tempo. Impariamo ad attendere, aperti e operosi, insieme.

Non sapendo quando l’alba arriverà, tengo aperta ogni porta.

(Emily Dickinson)

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