E POI? DOMANDA!

Quando la bolla delle nostre certezze esplode

Nel suo celebre diario intitolato Il mestiere di vivere (pubblicato postumo nel 1952) così scriveva Cesare Pavese: «Com’è grande il pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?». Quanto spesso ci fermiamo a pensare che le cose non sono scontate? Che nulla veramente ci è dovuto? In questi giorni, così particolari per la situazione di crisi che stiamo attraversando, forse non è difficile rendersene conto. La nostra quotidianità non è più così scontata: andare a scuola, al lavoro, a fare sport oppure spese, incontrare gli amici, fare le riunioni, lavorare nei negozi, scambiarsi abbracci o strette di mano. Spesso viviamo come dentro ad una bolla, fatta di certezze e stili di pensiero, idee verificate, progetti ben definiti, credenze forse poco dimostrate, ma che ad ogni modo ci fanno sentire sicuri e protetti. Lo studioso americano Greg Lukianoff la chiama bubble mentality, mentalità della bolla: noi dentro, assieme a chi la pensa come noi, e tutto il mondo fuori. Poi accade un imprevisto e così la nostra bolla scoppia, esponendoci a una vasta gamma di emozioni e stimoli che non ci saremmo forse mai augurati.

Quando la bolla delle nostre certezze esplode, la realtà ci urta con prepotenza. Può essere un’invasione di bellezza a spalancarci gli orizzonti, come accade ai bambini davanti alla novità che sono tutte le cose. Mai come in questi giorni, però, sappiamo che la sorpresa dello stupore può essere generata anche da fattori assai meno positivi. Che cosa ci auguriamo, proprio in questi tempi bui? Che finiscano presto. E poi? Pavese, durante la guerra, scrive: «Avrei voluto trovare tutto come prima, come una stanza che era stata chiusa» (La casa in collina, 1948). Eppure questo sappiamo che non è possibile. Ma in fondo, ce lo auguriamo davvero? Se le cose che accadono e spaccano i nostri confini non lasciassero nessuna traccia, sarebbero in fondo insensate. Quando un bambino si meraviglia ha come immediato impeto quello di domandare. Domandare che cosa sono quei portenti o gli oggetti di paura che lo circondano, chiedere “ai grandi” una spiegazione che renda ragione del loro stupore e li aiuti a conoscere ciò che hanno davanti. Noi adulti abbiamo forse perso l’abitudine a domandare “ai grandi”, alla realtà che ci circonda, anche a noi stessi, il perché delle cose che ci colpiscono o ci fanno paura. Talvolta non sappiamo a chi domandare, altre non sappiamo quale domanda porre, temiamo la risposta o pensiamo di conoscerla già, altre ancora non ci meravigliamo affatto. Se c’è, in questo tempo, una fortuna è che di risposte non ne abbiamo già preconfezionate e certamente riconosciamo di averne bisogno.

Lasciamoci allora spalancare come finestre dal vento impetuoso delle circostanze, disponibili e silenziosi, con domande aperte e sguardi attenti a cogliere gli accenti di verità che ci circondano. Così potremo tornare alla quotidianità senza che questo tempo sia passato senza lasciare tracce.

Cristina Picariello