IL MARKETING SECONDO STAN PHELPS

                         Se create una grande Customer Experience, i consumatori se la racconteranno l’un l’altro. Il passaparola è molto potente.

Jeff Bezos

Stan Phelps è l’autore di “What’s your purple Goldfish – 12 ways to win customers and influence word of mouth” e la sua teoria è che i Clienti si possano conquistare o, meglio si possano “incollare” al proprio brand attraverso dei “piccoli extra inaspettati” (che lui chiama GLUE – Giving Little Unexpected Extra) che suscitino l’entusiasmo dei clienti che, per parte loro, non vedranno l’ora di raccontare la loro esperienza ad amici e colleghi (ne abbiamo scritto qui).

Ora, il passaparola, il word of mouth, come viene chiamato negli Stati Uniti, con la sua significativa abbreviazione WOM (che sembra quasi WOW!), è quello che Phelps ritiene essere il miglior strumento di marketing, ben superiore, per efficacia, all’adveritising, alla sponsorship e alle public relation.

Vediamo nel dettaglio perché.

L’advertising tradizionale, sia esso online od offline, è un dialogo a senso unico, decisamente di parte, che veste il prodotto o il servizio con il suo abito migliore, mostrandolo nella sua forma più smagliante. Infondo, è difficile che un’azienda o un brand “diffondano” di proposito i propri punti deboli o le proprie “storpiature”. L’intenzione è quella di attirare l’attenzione del consumatore.

La sponsorship invece è quella forma di marketing che lavora sul concetto di “affinità” o di “associazione”. In questo caso, il brand si associa a una seconda parte, con l’intenzione, anche in questo caso, di catturare l’attenzione del consumatore sfruttando e intercettando le sue passioni.

Le PR sono un processo proattivo che regola il flusso di informazioni tra il brand e il suo pubblico. L’esposizione del brand nei confronti del suo pubblico avviene attraverso terze parti, soprattutto attraverso media mainstream. Il coinvolgimento di queste terze parti, generalmente, veicola maggior credibilità al messaggio.

Infine, il passaparola, ovvero l’informazione di un consumatore passata a un altro consumatore. O meglio, il racconto di un’esperienza di un consumatore confidata a un altro consumatore. Un consumatore che si fa “ambasciatore” di un prodotto, un servizio o, più genericamente, di un brand, presso un altro consumatore, garantendone personalmente il valore. In questo caso, il focus non è mai su una caratteristica specifica del prodotto, del servizio o del brand, né su una sua funzione o un suo vantaggio particolare. Quando un consumatore raccomanda qualcosa ad amici o colleghi, il soggetto del consiglio è “l’intera esperienza” che si può ottenere adottando quella soluzione.

L’effetto esteso che ha il passaparola era già stato ben rappresentato negli anni Ottanta dalla bella protagonista dello spot dello shampoo naturale Fabergé che ci racconta di aver raccontato del suo shampoo a due amiche, che hanno fatto lo stesso a loro volta, e così via..

Ovviamente, internet e i social media hanno elevato il livello dell’effetto che può avere un passaparola.

La bella notizia è che oggi questo passaparola generato dai clienti più soddisfatti (chiamati anche “promoter”) si può tracciare e quantificare. Attraverso un indice internazionalmente riconosciuto (il Net Promoter Score), comparabile con le medie di settore, il passaparola diventa strumento efficace per misurare lo stato di salute di un brand.

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