Un “esperto” d’eccezione coglie la vera brand promise dell’Inter e risponde così a Juve (Clicca qui) e Milan (Clicca qui)
Santo Versace è un uomo di sport. L’ho sentito tante volte, nella sua attività imprenditoriale, parlare ai “Suoi”, utilizzando metafore tratte dagli sport di squadra, dei quali è un osservatore attentissimo. È uno che di sport davvero “sa”, come quelli che l’hanno praticato, ed è attratto in modo speciale dall’intelligenza del gioco di squadra verso il quale sa motivare come pochi. A proposito di “intelligenza”: un suo amico, del quale non rivelo il nome, mi ha detto che Santo “ha i neuroni anche nei polpacci” e trovo che sia una definizione che calza a pennello in un uomo nel quale forza, energia e razionalità si fondono perfettamente con un’alchimia particolare, facendone una persona mai ferma, iperattiva e sempre con un progetto entusiasmante da proporre e una battuta graffiante che vuole “svegliarti”. Santo sente come una missione il voler svegliare l’interlocutore, farlo accorgere di qualche fattore della realtà che lui ha scoperto e lanciarlo verso qualche obiettivo sfidante: infatti, è proprio nella competizione – agonistica o imprenditoriale che sia – che lui si trova a suo agio.
In un Paese come il nostro, nel quale ci sentiamo tutti commissari tecnici della Nazionale, Presidenti del Consiglio ed esperti del lavoro altrui, effettivamente i suoi commenti non sono mai banali e suonano originali rispetto alle correnti di pensiero che vanno per la maggiore nei bar sport e in quelle piazze moderne che sono i social dove è sempre più difficile distinguere cosa è fake da cosa è autentico!
Tifoso, o meglio, in linea con quanto fin qui scritto, “esperto” di Inter, colui che insieme a Gianni e Donatella ha sviluppato un brand che fa sognare e che ha – oggi – un valore immensamente più grande della pur importante dimensione economica che raggiunge: chi, quindi, meglio di lui può farci viaggiare nei meandri dell’anima interista fino a scoprire – e trovare nel profondo – la brand promise della Beneamata?
Santo ha quindi acconsentito a rispondere alle domande di un milanista (“Essendo Santo sono abituato a perdonare…” mi ha graffiato!) per questa insolita prospettiva customer experience oriented con la quale il nostro magazine vuol proporre il paragone tra i fan(atici) del calcio e i promoter che tutti ricerchiamo nelle aziende in cui lavoriamo per migliorare il Net Promoter Score.
D.: Che cosa significa essere interisti?
R.: Significa far parte di una comunità che ama lo sport vero, che ha esperienze di livello internazionale, che sa amare e soffrire e che quindi ha doti morali. Gli iniziatori di questa comunità sono i Moratti, Angelo prima e Massimo poi, che hanno davvero messo le fondamenta e su di esse hanno fatto crescere le caratteristiche distintive della squadra e della comunità di interisti (che è tutt’uno con essa). I Moratti sono i protagonisti dell’identità, del DNA dell’essere interisti, del far parte di questa comunità, avendo valorizzato da veri imprenditori tutto quello che c’era prima di loro e avendo lanciato verso il futuro, il dopo di loro, proprio questo “essere interisti”. C’è una tal “classe” nei Moratti e nel loro modo di intendere lo sport e la squadra, c’è una tal “classe” nell’ironia di Peppino Prisco che nessun’altra squadra ha mai avuto allo stesso modo: insomma, c’è una “classe” che tutta la comunità interista è chiamata a vivere!
D.: Come sei diventato interista?
R.: Mio papà era incantato dal grande Torino, ce ne parlava sempre… Da Valentino Mazzola all’Inter, per ovvi motivi, il passo è stato breve: anzi, in assoluta continuità con ciò che entusiasmava papà… Gianni, Donatella ed io siamo sempre stati interisti…
D.: Più grande l’Inter di Herrera o di Mourinho?
R.: Davvero sono due epoche diversissime. Immense entrambe le squadre e stesso DNA, entrambe supermorattiane. L’Inter di Herrera poteva vincere anche molto di più e quella di Mourinho è stata preparata da Mancini: il triplete è stato indiscutibilmente preparato da Mancini, un grande… che deve ancora raccogliere e raccoglierà il successo più grande della sua carriera nello sport.
D.: Se allora, seppur in epoche diverse l’Inter di Herrera e quella di Mourinho hanno lo stesso “imprinting” morattiano, qual è la promessa che il brand Inter fa e mantiene per i suoi fan?
R.: La brand promise dell’Inter coincide con la sua identità: l’Inter è femmina! La sua promessa è quella di essere se stessa. Comunque tu possa cercare di conquistarla, di comandare il gioco, di imbrigliarla con tattiche al limite del regolamento… “Lei” ti fa gol, ti fa crollare e ne esce vittoriosa, non si può altro dire che “amala” a una così, anche se ti fa soffrire: fa parte del suo essere!
D.: I tre campioni che più rappresentano la “comunità” degli Interisti?
R.: Senza dubbio Facchetti (l’apice dello spirito interista il 3-0 di Facchetti il 12 maggio 1965, semifinale di Coppa Campioni, Inter–Liverpool, ribaltando la sconfitta per 3-1 dell’andata , Mazzola che passa a Corso che vede Facchetti che aggredisce la profondità come pochi centravanti saprebbero fare e fa partire un bolide…), Zanetti, il capitano che ha riproposto, attualizzandoli, i valori di sempre proiettando l’Inter nell’era moderna; al terzo posto metterei qualcuno come Veleno Lorenzi o Mario Corso: la sua foglia morta è una delle espressioni più riuscite della femminilità di cui sopra!
D.: C’è qualche squadra che assomiglia all’ Inter?
R.: Certo che no! Sento risuonare dentro di me qualche nota emozionante e famigliare davanti allo spettacolo dei tifosi del Liverpool quando cantano in decine di migliaia allo stadio You’ll never walk alone.
Santo Versace è un fiume in piena, come diceva Jean Guitton “Si nasce vecchi e ci vuol tutta la vita per diventar giovani”…
Al prossimo Inter–Liverpool quindi…