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Milano

LONDRA A… MILANO!

Sapevate che una o due domeniche al mese un piccolo angolo di Milano si trasforma in un quartiere super cool di Londra? Se ci siete già stati avrete sicuramente capito a cosa mi riferisco… Parlo di East Market in via Mecenate!

All’interno ed all’esterno di una ex fabbrica aeronautica, in un’atmosfera industrial, si sviluppa un mercato in cui si può trovare davvero di tutto: dagli oggetti di antiquariato, alle borsette firmate Prada, ai dischi in vinile fino ad oggetti di modernariato colorati, stravaganti e (diciamocelo) un po’ kitsch. Insomma, chiunque vada ad East Market troverà sicuramente almeno una cosa che vorrà acquistare, anche se poi magari non lo farà, vista la cifra di alcune delle chicche esposte!

Posso dirlo per certo dopo essermi innamorata di un paio di occhiali da sole vintage di Trussardi, una camicetta dorata di Chanel e un paio di Levi’s per uscire poi a mani vuote, col portafogli che sorrideva sicuramente più di quanto facessi io dopo tutte quelle rinunce. Effettivamente, la maggior parte delle persone aveva in mando almeno una borsetta, a riprova che resistere alla tentazione è davvero difficile!

Ammetto di aver fatto molto caso alle persone che mi circondavano perché credo siano realmente fondamentali nel creare l’atmosfera che si respira ad East Market: l’arcobaleno di personalità e stili che popolano il mercato ha dell’incredibile: sembra davvero di passeggiare per Londra.

A rendere l’esperienza completa poi ci pensa il food market che ci accoglie appena accediamo ad East Market: i migliori street food e ristoranti di Milano infatti offrono una scelta ampissima di pietanze da tutte le parti del mondo per stuzzicare nel tempo di una breve pausa tra una bancarella e l’altra oppure per un vero e proprio pranzo o cena.

L’ultima volta che ci sono stata, qualche settimana fa, ho optato per fare il tour completo del mercatino per concludere poi con una fresca birra alla spina ed un assaggio di un taco, ma confesso che sono stata indecisa fino all’ultimo tra il messicano e gli invitanti roll di Temakinho.

Ovviamente non ci sono tavoli, ad East Market si mangia rigorosamente in piedi o sui bancali sparsi per il cortile e si chiacchiera, si chiacchiera tantissimo.

Everything old is new again”. È questo il motto dell’esposizione, lo vediamo a formare una parete all’ingresso e scritto con i led nel capannone principale, e non avrebbero potuto trovare frase migliore per spiegare cosa è East Market: quel posto in cui il vecchio si mischia con il nuovo, riprende vita immerso in un’atmosfera vibrante in cui masse di giovani e giovanissimi provano affascinati cappotti risalenti ai tempi dei loro nonni.

Insomma quello che mi sono portata a casa questa volta da East Market non sono oggetti, ma sono i profumi dei cibi, i colori di tutte le stravaganze esposte, il brusio delle persone unito alla musica di sottofondo e va benissimo così.

Dopo tanto tempo sono tornata a Londra per qualche ora, senza prendere un aereo!

RICETTA DI ARCHISTAR

Architetti e chef, binomio insolito e sorprendente

Cibo e architettura. Questo è il binomio che da vita a Taste the Architect, la nuova serie proposta da Indeho, piattaforma digitale nata nel 2020 con l’obiettivo di raccontare attraverso uno stile innovativo le relazioni che intercorrono tra il mondo del design e il pensiero progettuale.

In Taste the Architect gli architetti Marco Piva, Piero Lissoni, Paola Navone, Massimo Roj e Massimiliano Locatelli, affiancano lo chef Andrea Vigna in un’esperienza di creatività condivisa.  La Food Accademy dello showroom di Signature Kitchen Suite a Milano è il loro palcoscenico.  Host di ogni intervista è Paolo Bleve, Direttore Creativo e Anchorman di INDEHO.

Non nascondo i miei iniziali sentimenti in un qualche modo contrastanti, la curiosità da un lato e la diffidenza dall’altro. Tuttavia è stato facile familiarizzare con l’idea di un architetto al fianco di uno chef, insieme dietro al suo banco di lavoro. La celebre espressione Dal cucchiaio alla città, citata in uno degli episodi, rende limpida la naturalezza del mio processo mentale.

Nel 1952 l’architetto Ernesto Nathan Rogers, membro del gruppo BBPR e direttore di Casabella-Continuità, conia questo slogan nella Carta di Atene, documento che enuncia e fissa i fondamentali principi della città moderna. Rogers esprime in modo semplice e diretto il coinvolgimento del fare architettura a partire dall’oggetto di uso quotidiano fino all’organismo urbano più complesso. Nella grande utopia positiva i processi d’industrializzazione coincidono con i contenuti delle avanguardie storiche e della rivoluzione socioculturale che animano il secondo dopoguerra.

Diverso il momento storico, diversi il contesto e il format di Taste the Architect, decisamente più disimpegnati, ma la città e il cucchiaio, o meglio la forchetta, si incontrano ugualmente. Trovo in questo modus operandi la dimostrazione del fatto che l’idea della multidisciplinarità tra le arti, anche in questa chiave leggera, è espressione dell’approccio moderno.

Taste the Architect ci propone un interessante viaggio tra architettura e cucina, dove attuali riflessioni progettuali trovano il loro equivalente gastronomico. Sono gesti quotidiani e memorie conviviali il punto di partenza per creare una nuova ricetta e parlare di architettura, urbanistica e design del prodotto, di alimentazione e stili di vita.

I cinque architetti, di volta in volta protagonisti di un episodio, affrontano in maniera genuina tematiche architettoniche accompagnate dai loro parallelismi culinari. Per citarne alcune: la trasformazione urbana del patrimonio edilizio associata a ricette tradizionali, l’ecosostenibilità progettuale al consumo consapevole in cucina, l’utilizzo di materie prime e cultura locali a prodotti km zero e di stagione…

Non ci resta che impiattare e gustare, in attesa della prossima stagione!

COLAZIONE DA TIFFANY… ANZI, DA SOMMARIVA!

Se fosse un film, lo rivedrei

La domenica è quel giorno in cui si recuperano veramente le energie, quel giorno in cui non si punta la sveglia. Sarà forse per questo che ci si alza la mattina un po’ grotteschi, cupi?

Così, la colazione diventa un rito sacro, un momento per iniziare la giornata con energia. Dove farla? Alla pasticceria Sommariva! È una bottega storica di Milano nata nei primi anni del ‘900, rilevata dalla famiglia Sommariva negli anni ’70. Tutt’ora continua la sua storia con i figli, i quali hanno deciso di seguire le orme del padre Giorgio che ha reso l’amaretto di Porta Romana, ormai, una vera e propria tradizione di quartiere.

Perché sono rimasto colpito? Perché avendo fatto colazione, ho pensato di riportare al banco la tazza del cappuccino che avevo bevuto ed il piattino su cui era stato servito uno degli splendidi pasticcini che avevo scelto accuratamente, essendoci davvero una vasta scelta. Forse il mio gesto è nato dall’aria che si respira nel locale, mi sentivo a casa, come quando la mamma mi ricordava di non lasciare la tazza sul tavolo finito di fare la colazione. Questo gesto è valso un amaretto di Porta Romana!

Infatti, il signor Giorgio mi ha voluto ringraziare, dicendomi: “Lo regaliamo a tutti coloro che dopo aver consumato, ci aiutano portando tazze, bicchieri e piattini qui al bancone. Lo facciamo per rendere felice il cliente e perché così poi si ricorda di noi e torna a trovarci”. Mi ha stupito l’autenticità del gesto, pensato con gratitudine sincera.

Quante volte ci sarà capitato di fare la stessa operazione nei fast food, in cui siamo stati spesso invitati a riportare il vassoio? Quante volte ci sarà capitato addirittura di dover suddividere la nostra consumazione in diversi cestini della spazzatura… senza ricevere nemmeno un grazie?

Ebbene, alla pasticceria Sommariva questo gesto è premiato, non solo con un sorriso, ma con un amaretto di Porta Romana! È un piccolo segno di gratitudine che fa venire voglia di tornare! Un piccolo extra inaspettato… che mi ha proprio cambiato la giornata.

Non posso che ringraziare il signor Giorgio, perché con la sua autenticità ha reso la mia colazione indimenticabile e senza alcun dubbio da ripetere!

PASSEGGIANDO IN MONTENAPOLEONE

Nelle vetrine di Dolce e Gabbana ho trovato la sedia di Peguy

Sabato scorso, in una Milano che sta lentamente tornando alla normalità, percorrevo Via Montenapoleone quando la mia attenzione si è soffermata sulle due vetrine del negozio di Dolce e Gabbana.

Dietro ai manichini donna, vestiti con abiti ricercatamente eleganti nell’ormai consolidato stile barocco di questo brand, compaiono due grandi pannelli dentro ai quali sono visibili immagini mobili su un display. Viene graficamente rappresentato uno spaccato dell’attività che si svolge negli uffici dello showroom: si vedono addetti che lavorano alla scrivania, misurano e provano i capi ai clienti, trasportano la merce da un locale ad un altro, stirano, sistemano i tavoli e mettono ordine sugli stand. In una stanza sono raffigurati anche un gatto e un cane scodinzolante, presenze ormai frequenti anche nei luoghi di lavoro.

L’impatto sul passante coglie nel segno: si resta catturati dalle immagini che scorrono, raffiguranti il lavoro che si svolge nei diversi uffici, e ci si sente testimoni dell’intensa attività che ruota intorno ai capi che poi vengono esposti in vetrina sui manichini. Ognuno di essi, infatti, è frutto di un lavoro enorme, al quale contribuiscono tantissime persone, e i pannelli esposti in queste vetrine rendono perfettamente l’idea.

Questa splendida scenografia, costituita da persone dedite a realizzare con impegno il proprio lavoro, mi ha riportato alla mente un brano di Charles Peguy: «Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali» (L’argent, 1913).

Il poeta e scrittore francese rimpiangeva i tempi in cui il lavoro era fonte di felicità, gli anni in cui lavorare non solo non era un peso, ma bensì dava gioia e speranza. Oggi più che mai, le sue parole ci richiamano alla necessità di tornare alle radici, perché solo una seria rivalorizzazione del lavoro può aiutarci ad uscire dalla crisi. In tal senso, le immagini nelle vetrine di Dolce e Gabbana mi sono apparse proprio come uno stimolo a rimettersi a lavorare, a festeggiare il lavoro, ad applaudire chi è impegnato nella propria attività, a tornare a sperare in un futuro positivo.

E’ lo stesso Peguy che ci aiuta a guardare con fiducia al futuro, lasciandoci, nella conclusione della sua opera, un atto di speranza per l’umanità: “Essa la spunterà ugualmente. Nonostante tutto. Andando oltre”. Perché c’è nello scorrere della vita qualcosa di misterioso che riesce a ricreare nell’umanità “soprattutto il buon umore, generale, costante, quel clima di buon umore, e quella felicità, quel clima di felicità”.

5 RAGAZZI VELOCI ALL’OPERA PER ME

Una visita da Five Guys Milano per scoprire se il brand saprà sorprenderci come avvenuto a Londra

Five Guys è una catena di Fast Casual “velocissimo” che è sbarcata in Italia a inizio settembre a Milano, in corso Vittorio Emanuele.

“Non ci sono congelatori nelle sedi di Five Guys, ma solo frigoriferi”

La value proposition è differenziata rispetto alle tipiche catene fast food come Mc Donald’s, Burger King o Subway. Five Guys infatti si posiziona in una fascia più elevata, promettendo carne sempre fresca, di qualità, e rigorosamente preparata al momento. I colori predominanti dello store sono il rosso ed il bianco, completati dalla completa assenza di divisioni dello spazio. Esso è in completa comunicazione con l’esterno grazie alle ampie vetrate e, cosa ancor più importante, la cucina è completamente alla vista dei clienti. Nonostante l’orario, le 14:30, il luogo è estremamente affollato: nessun posto a sedere libero e lunga coda (ma breve) in attesa del proprio pasto.

Semplicità ed interazione

La formula che Five Guys decide di proporre ai consumatori è molto semplice: poche varianti di hamburger/hot dog, personalizzabili con un’ampia varietà di contorni gratuiti. A scelta del cliente, è possibile accompagnare il proprio pasto con un refill illimitato delle bevande preferite.

Dopo aver effettuato l’ordine alla cassa si viene invitati ad attendere proprio di fronte al luogo della preparazione degli hamburger. Come evidenziato nel libro “Aspettando Starbucks” (clicca qui) Five Guys ha adottato la soluzione della cucina a vista e del totale coinvolgimento dello staff nell’esperienza del cliente. Dietro al bancone sono numerosissimi i ragazzi al lavoro, tutti rigorosamente in tenuta rossa, i quali procedono con un’organizzazione rigorosa e perfetta all’evasione degli ordini. Il tempo medio per ordine è infatti di circa 15 secondi. La breve attesa dà inoltre modo di distrarsi ed osservare due elementi importanti del locale. Appesi alle pareti ci sono infatti dei cartelli riportanti recensioni eccellenti sul locale a cura di testate giornalistiche e riviste, e “pezzi di storia” dell’hamburger, quali immagini ed estratti giornalistici.

Quello che manca invece, rispetto a quanto promesso dal sito web, sono delle indicazioni riguardo la freschezza, la qualità o l’origine degli ingredienti utilizzati. L’unico accenno è una piccola lavagnetta sulla quale viene indicata la provenienza geografica “del giorno” delle patatine.

Una volta terminata l’attesa ci viene servito il cartoccio con il nostro ordine, arricchito di un’ulteriore abbondante manciata di patatine, elemento molto apprezzato nonché inaspettato: questo è il piccolo/grande G.L.U.E. di Five Guys (clicca qui).

Consumando il pasto in loco si ha modo di essere immersi in un ambiente diverso da quello di un classico fast food. Ci colpisce la cura dei dettagli alle pareti e dell’arredamento del negozio, dominato da una montagna di scatole di bagigi poste al centro. Ogni elemento sembra voler insegnare qualcosa sulla “cultura” del panino al consumatore, che si perde nell’osservazione dei dettagli guidato da una forte musica che fa ricordare il tipico pub del film americano.

Giovanni Concini: https://www.linkedin.com/in/giovanni-concini-9a260a108/

TRA DUE, TUTTO IL MONDO – IL CASO DI PANINO GIUSTO

Panino Giusto sbarca nel cuore di Milano e, anche se la sua attività può ormai vantare più di trent’anni d’esperienza, il suo, oggi, sembra davvero un nuovo inizio.  Il nuovo locale apre in via Borgogna 5, a san Babila, nel centro di Milano. E ci arriva, proprio perché è veramente un marchio milanese – ha 15 locali tra città e hinterland  – che è riuscito a entrare nel cuore di ciò che Milano da sempre fa: mettere in risalto le eccellenze che arrivano da ogni parte del mondo.

panino giusto dentroAllo stesso modo si è anche comportato Panino Giusto. È riuscito a valorizzare al meglio il food italiano grazie al suo fast casual, unendo cioè alla qualità del prodotto e dei suoi ingredienti la velocità del servizio. Una delle loro ultime creazioni è “Tra i due”, un panino ideato dal grande chef Claudio Sadler.

Inoltre dal 2012 ha aperto un’Accademia, luogo che con formazione culinaria ospita anche appuntamenti culturali, oltre che la prima Biblioteca tematica sul panino.

Negli anni Panino Giusto è riuscito a espandere i suoi valori e le sue tradizioni aprendo locali in Giappone e sbarcando anche nella city londinese. Questa capacità di valorizzare quello che può andare tra due fette di pane è sempre stato per Milano sinonimo di internazionalizzazione. E la storia di Panino Giusto lo dimostra.

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