Author

Mario Sala - page 9

Mario Sala has 114 articles published.

Partner di Praxis Management, società di consulenza milanese. Da oltre vent’anni anni è impegnato nel retail dei migliori brand del lifestyle nei settori della moda, del food e del design. L’attenzione crescente per i temi relativi al Cliente ha generato in lui un interesse approfondito sul tema della Customer Experience, che lo ha portato a costituire Italian Customer Intelligence e a sviluppare importanti relazioni internazionali sul tema. Il brand, che raduna partner con diverse competenze, sostiene le aziende a progettare, offrire e portare in tutto il mondo una Customer Experience superiore: in una parola, a entrare davvero “nell’Era del Cliente”. mario.sala@praxismanagement.it

NET PROMOTER SCORE…SI CRESCE SOLO PER ENTUSIASMO! /2

Il punto è che, ed è duro digerirlo, i veri clienti di un brand sono solo i promoter e tutti gli altri sono clienti…transeunti! (Clicca qui l’articolo precedente)

Perché?

Lo dice bene Simon Sinek (Clicca qui) nel suo modello The Golden Circle: i clienti comprano ciò in cui le aziende (ovvero i loro protagonisti) credono. Solo in un secondo tempo paragoneranno il grado di coerenza fra ciò che le aziende fanno e come lo fanno con ciò in cui dicono di credere.

Quello che davvero attrae il cliente è quindi ciò in cui autenticamente le aziende credono, cioè se i valori che spesso campeggiano nei loro siti sono veri, vissuti, realizzati proponendo sorprendenti novità e innovazioni proprio nella direzione del loro “credo”.

Se i veri clienti e, fra essi, i fan di un brand sono coloro che si entusiasmano per i valori promessi dai protagonisti del brand stesso, ne deriva che i fan di un brand sono attratti dalla stessa cultura che l’azienda promuove.

Ecco perché una cultura aziendale autentica, forte, vissuta in prima persona da chi la offre e capace coraggiosamente di comunicarsi pubblicamente in promesse attira clienti potenzialmente fan. Viceversa promesse e valori comunicati genericamente per la paura che troppa “nettezza” escluda fasce di clienti ha proprio il risultato opposto.

Che fare concretamente allora?


CONTINUA/2

NET PROMOTER SCORE…SI CRESCE SOLO PER ENTUSIASMO! /1

Il cliente “abbastanza” soddisfatto è un cliente non soddisfatto abbastanza… E se ne va!

Il Net Promoter Score misura il tasso di passaparola che i clienti assicurano a un dato brand. Si calcola chiedendo ai clienti con quale probabilità – in una scala da zero a dieci –  consiglierebbero un brand: chi attribuisce un voto 9 o 10 viene chiamato promoter, 8 o 7 passive e – da 0 a 6 – detractor.

Sottraendo alla percentuale dei promoter quella dei detractor risulta il Net Promoter Score che non viene espresso in punti percentuali ma come numero assoluto tra -100 e +100. Si tratta di un indice molto importante, internazionalmente riconosciuto, che da una parte “mette in fila” anche i brand più importanti del mondo (www.npsbenchmarks.com), dall’altra, misura indirettamente, ma con un certo grado di affidabilità, lo “stato di salute” che i clienti attribuiscono a un brand e come esso vari nel tempo permettendo un giornalistico “chi sale e chi scende” sempre molto temuto o apprezzato… a seconda dei casi!

Chi si occupa di customer experience è molto interessato a conoscere soprattutto le ragioni dei promoter, ovvero quali motivi inducano i fan di un brand a tanto entusiasmo così da non poter fare a meno di far pubblicità gratuita ad amici e colleghi dei loro brand super preferiti.

Nella mia esperienza i risultati di tali motivazioni conducono a rilevare un vero e proprio plebiscito per uno o massimo due fattori che i promoter riportano: spesso non gli stessi sui cui “puntavano” prima del sondaggio owners e protagonisti del brand, facendomi sempre più far esperienza del motto di Kerry Bodine, già vice president della Forrester Research e vera e propria star del tema della customer experience negli Stati Uniti:

Ciò che pensate di sapere sul cliente è probabilmente sbagliato.
 PENSARE di sapere che cosa vuole il cliente è rischioso.
SAPERE che cosa vuole il cliente permette di cambiare in meglio la sua Customer Experience.

Qualche volta i brand nostri clienti insistono, nonostante la nostra esitazione, nel voler interrogare anche i passive chiedendo loro che cosa dovrebbe fare il brand per far meritare il loro 9 o il loro 10 al posto del voto 8 o 7 che caratterizza questo cluster di clienti.

Le risposte, nella nostra esperienza, sono tutt’altro che univoche e spesso contraddittorie: i motivi per arrivare a dare 10 o 9 si elidono fra loro o sono davvero molto differenti tanto che per accontentare significativamente questa clientela ci si dovrebbe spesso riempire di servizi o prodotti aggiuntivi, burocrazia, costi e complessità con l’amaro risultato che i passive continuano a rimanere… passive.

Il punto è che, ed è duro digerirlo, i veri clienti di un brand sono solo i promoter e tutti gli altri sono clienti….transeunti! Perché?

CONTINUA /1

CUSTOMER EXPERIENCE? UN AFFARE (ANCHE) DA AVVOCATI! /1

Il cuore della customer experience così come nata, studiata e sviluppata negli Stati Uniti per i migliori brand del mondo, ha un’impronta “giuridica”…

Può apparire strano ma non è un caso che “la pratica” della customer experience (e le poderose ricerche delle migliori Università sul tema) sia nata negli Stati Uniti dove, da sempre, la concezione che si ha del cliente è fondamentalmente di tipo giuridico.

Per il cliente americano davvero OGNI acquisto è un contratto che il “fornitore” deve rispettare impegnandosi in modo chiaro a raggiungere uno standard altrettanto chiaramente pre-comunicato. Che si tratti di una stanza di hotel, del noleggio di un’auto, di un pasto, di un orologio, di una manutenzione, di una t-shirt o di un abito da sera mozzafiato, se il fornitore non rispetta lo standard promesso si va subito per avvocati, ovvero, nella maggior parte dei casi, si rispettano delle tabelle (redatte da avvocati) che si traducono in un immediato refund sulla carta di credito del cliente di una quota di quanto pagato, stimata  come proporzionale al sub-standard patito, per chiudere immediatamente la controversia.

Ciò che, in modo assai romantico e “matrimoniale” (ah…ecco un altro “contratto”), chiamiamo promesse del brand alla propria clientela, in realtà non sono altro che la formulazione attrattiva marketing–oriented dello standard che il brand si obbliga (altro termine contrattuale) a offrire.

E non è, di nuovo, un caso che i due indici più significativi della valutazione della customer experience, ovvero il Net Promoter Score (Clicca qui) e il Customer Experience Index (Clicca qui) negli Stati Uniti premino non i brand che sparano la promessa più grossa, ma chi rispetta in modo impeccabile e coerente la promessa, qual essa sia, che propone. Ed è ben studiato quanto questi indici siano legati in modo proporzionale a parametri importantissimi quali la frequenza d’acquisto, il valore medio degli acquisti stessi e la fedeltà dei clienti (Clicca qui).

La pratica della customer experience consiste proprio nel far vivere questo “contratto” in ogni touchpoint (Clicca qui), ovvero in ogni occasione di relazione col brand: è da questa concezione “giuridica” che occorre si sviluppi quella relazione sincera e autentica con il cliente di cui i più affermati brand internazionali dialogano al loro appuntamento annuale del World Retail Congress (Clicca qui): è davvero questa l’essenza del passaggio dall’era dell’informazione e del marketing all’era del cliente (Clicca qui).

La concezione del cliente da cui si parte in Italia –e in generale nel Sud Europa- è spesso invece quella del cliente come amico, conoscente o intenditore. Cliente con il quale instaurare una relazione che non preveda “tradimento” da parte del cliente stesso (come se non gli fosse concesso di cercare sistematicamente alternative), da stupire con promesse sempre più grandi e accattivanti per non perderlo. Nella pratica, per cercare di mantenerle, le aziende di frequente aggiungono servizi, costi, burocrazia e complessità devastanti.

Abbiamo spesso sottolineato come la customer experience sia questione di metodo e immedesimazione (Clicca qui e qui), ma occorre che tali qualità siano “giuridicamente” orientate.

È importante quindi coinvolgere anche qui da noi chi ha fatto studi giuridici nei gruppi che, spesso alle dirette dipendenze del CEO nelle loro fasi iniziali, lavorano per progettare e offrire una customer experience convincente ai propri clienti. Certo, almeno negli Stati Uniti, i consigli degli avvocati si pagano caro visto che uno degli slogan più in voga nei loro studi è: “FREE ADVISE IS WORTH WHAT YOU PAY FOR IT”!

1/ CONTINUA

NON SOLO STARBUCKS, ANCHE COCA-COLA SCENDE IN CAMPO!

Coca-Cola Company fa la più grande acquisizione della sua storia. Ecco perché proprio nel caffè…

Servono 5 miliardi di dollari per acquisire Costa Coffee e Coca-Cola Company li sborsa sull’unghia. Quando si parla di caffè spuntano spesso gli Italiani (Starbucks stessa è nata dall’ispirazione dei bar che sono una vera e propria Istituzione nel Bel Paese, come sa raccontare in modo impareggiabile lo stesso Howard Schultz) e infatti sono due fratelli, Bruno e Sergio Costa immigrati in Gran Bretagna negli anni ’60 da Parma a fondare nel 1971 una torrefazione a Lambeth, nel centro di Londra per rifornire i ristoranti con caffè tostato italiano. Partiti con questa torrefazione Costa ne ha fatta davvero di strada e ora gestisce circa 4.000 caffè in 32 paesi, mentre Costa Express offre caffè di grande qualità in luoghi come aeroporti, cinema, distributori di benzina attraverso una rete di 8000 distributoriautomatici.

Costa Coffe è la catena numero due al mondo, dopo Starbucks, con un fatturato di 1 miliardo e duecento milioni di sterline .

Perché Coca-Cola si metta a far concorrenza al player più forte del mondo è presto detto: le vendite globali di caffè stanno superando per la prima volta nella storia quelle delle bibite analcoliche e per il prossimo triennio è stimata una crescita di circa il 16%!

L’esperienza della bevanda calda è quindi il nuovo fronte di  “combattimento” fra questi due colossi e la Cina è la vera terra di espansione individuata da Coca-Cola per rincorrere la leadership di Starbucks.

INCREDIBILE A KANSAS CITY: NET PROMOTER SCORE AL 94%!

BUNGII ha raggiunto un incredibile livello di entusiasmo e passaparola dei suoi clienti. Come? Guarda il video!

Guarda il video: bit.ly/2QmByZg

L’ idea è quindi semplice e fantastica: un’app, un click e l’”UBER” dei camioncini o di un SUV spazioso (dipende da cosa devi trasportare ) arriva in fretta e il Net Promoter Score al 94% sta a significare che arriva davvero!

Risultati immagini per bungii app

Anche l’app è di una semplicità disarmante, solo tre passaggi:

  • Snap it! Fotografa cosa devi trasportare.
  • Track it! Visualizza sulla mappa il BUNGII DRIVER più vicino e disponibile.
  • Love it! Visualizza all’istante tempo stimato, distanza e costi (da pagare sempre tramite app).

E se sei un aspirante driver clicca su DRIVE WITH US.

Un altro mondo davvero. Qui da noi solo ad accennare a UBER (attivo per sentenza del Tribunale solo nella forma Uber Black, ovvero del noleggio auto con conducente professionista, per lo più di limousine) c’è stata la rivolta dei taxisti; chissà un “Uber 2” dei trasportatori in città quali strali addosso a sé attirerebbe… Per adesso…chiudiamo i negozi la domenica!

LIFT EXPERIENCE… DI UN MILANESE IMBRUTTITO

Una strana esperienza nell’ascensore di uno dei più noti cinema milanesi

Certamente nella valutazione di alcune occasioni di customer experience incide la cultura della città nella quale l’esperienza viene vissuta.

Un esempio viene da questa esperienza “goduta” in un (bel) cinema milanese da parte dello spettatore che, comprato il biglietto per sé e per la bellissima ragazza in dolce attesa alla quale si accompagnava, ha preso l’ascensore per approdare alla sala del secondo piano dove stava per iniziare il film scelto.

Da perfetto milanese imbruttito lo spettatore ha contato i minuti per presentarsi all’ultimo istante al botteghino perché, si sa, ghà da laürà: ha quindi preso per tempo i biglietti su internet per evitare la coda in biglietteria e prendere la corsia fast track, ha utilizzato l’app di Easy Park (Clicca qui) per ottimizzare i tempi del parcheggio e naturalmente si era premurato di prenotare il ristorante per il dopo cinema sempre per evitare perdite di tempo.

Il milanese davvero imbruttito ha proprio con l’ascensore un terribile rapporto per il tempo che egli pensa faccia perdere: non è mai veloce abbastanza e quando lo chiama preme più volte nervosamente il pulsante di chiamata per velocizzare l’arrivo. Per non parlare degli incontri che si possono fare in ascensore  che “costringono” al saluto e a qualche frase fatta: tutto tempo sottratto alla lettura delle mail sull’I-phone per presentarsi in ufficio già “sul pezzo”.

I milanesi imbruttiti più scaltri e riflessivi hanno recentemente scoperto che se anche si pigia il pulsante più volte, la velocità di salita dell’ascensore non aumenta e, forse grazie a uno di loro laureato in strategia aziendale alla Bocconi, ora usano lo stratagemma di uscire dalla porta di casa, chiamare l’ascensore e intanto tornare indietro a chiudere a chiave la porta di casa stessa. Almeno così si ottimizza (verbo pluricitato nella giornata tipo del milanese doc) il tempo dell’attesa.

Immaginate quindi il sopracitato milanese che, trafelato per l’inizio del film, approccia l’ascensore del cinema, vi entra e, apprestandosi a schiacciare il bottone del secondo piano, trova questo avviso! (Vedi foto a destra)

Da non credere! Per di più l’ascensore è lentissimo e lui, naturalmente per velocizzarlo, preme velocemente sul pulsante come fosse quello del  vecchio flipper di quando era ragazzo al bar della spiaggia, ma, inevitabilmente, e come l’avviso diceva chiaramente, ogni volta che il pulsante veniva rilasciato, l’ ascensore si fermava…

Le risa della bellissima ragazza a lui accanto, come potete immaginare, non han fatto altro che peggiorare la situazione…

3 MILIARDI PER RINFRESCARE LA CUSTOMER EXPERIENCE DI MCDONALD’S

Il colosso del Fast Food vuole offrire ai propri clienti un’esperienza più moderna, più divertente e più tecnologica

L’autorevole sito americano chainstoreage.com, vero e proprio punto di riferimento per ogni tipo di “catena” negli U.S.A., informa che McDonald’s sta investendo 3 miliardi di dollari per ambiziose iniziative di store remodelingL’obiettivo, informa McDonald’s stesso, è quello di riformare la customer experience “dentro e fuori” i grandi ristoranti negli Stati Uniti.

Qualche mese fa JLL, la società di gestione immobiliare worldwide presente nella lista di Fortune 500, aveva appunto “ammonito” i propri clienti food e alimentari di “rinfrescare” store ed esperienza dei loro clienti, essendo stati i brand, negli ultimi anni, esclusivamente concentrati sulle nuove aperture.

La ricerca sui clienti dei centri commerciali alla base di questo “ammonimento” di JLL e i trend che da essa emergono, sono stati puntualmente riportati nel nostro magazine (clicca qui). Sta di fatto che McDonald’s ha risposto prontamente stanziando 3 miliardi di dollari per il 2018. Le location di McDonald’s negli U.S.A. coinvolte, offriranno un’esperienza “più moderna, più divertente, più tecnologica“.

Il refresh dei locali riguarda sia gli allestimenti interni ed esterni che le decorazioni, che saranno sempre più ispirate dalla località sede del ristorante. L’esperienza dell’ordine del cliente sarà – grazie alla tecnologia – sempre più personalizzata e il menù digitale sarà di facilissima lettura, sia per chi vive l’esperienza nello store sia per chi utilizza il McDrive. Anche il servizio al tavolo risulterà più semplice e veloce dell’attuale. Novità anche nei parcheggi e per i McCafè, che avranno banconi più grandi e display sempre più luminosi.

Il remodeling riguarderà non solo i 360 ristoranti del brand a New York, ma anche 840 location in Texas e 580 location in California.

Presto novità anche in Europa.

LA TRIMESTRALE DEL CLIENTE

Chi si occupa di customer experience può significativamente sostenere i decision maker aziendali alle prese coi risultati trimestrali producendo una “trimestrale” del cliente, forse il più autorevole “analista” dei bilanci aziendali e dei “bilancini” trimestrali.

Le “trimestrali” sono un evento importantissimo nella vita di un titolo azionario. L’attenzione di tutti gli investitori interessati a quella particolare società o settore si concentra spesso sulle trimestrali, ovvero sulla comunicazione che le società quotate sono obbligate a fare rendendo pubblici i loro risultati nell’arco temporale dei tre mesi.

Nella maggior parte dei casi, il titolo prende valore se la società in questione produce stabilmente utili, indice riassuntivo della salute della società stessa.

Le trimestrali sono ovviamente attesissime dagli investitori e riservano spessissimo inattese sorprese a causa degli innumerevoli fattori, esterni ed interni all’azienda quotata, che ne determinano l’imprevedibilità dell’andamento e, spesso, la volatilità del titolo stesso.

Anche medie imprese non quotate in borsa utilizzano un’analisi dei propri risultati trimestrali, non solo per controllarne l’andamento, ma per le continue e necessarie revisioni di budget, quando previsioni fatte antecedentemente sul futuro non sono in procinto di avverarsi.

Naturalmente il futuro è difficile da prevedere e queste continue e pronte revisioni e correzioni dei propri programmi che derivano da queste “trimestrali” (al ribasso o al rialzo che siano) sono una delle qualità più richieste ai manager.

 

Chi si occupa, come noi, di Customer Experience, può significativamente sostenere i decision maker aziendali alle prese coi risultati trimestrali producendo una “trimestrale” del cliente, forse il più autorevole “analista” dei bilanci aziendali e dei “bilancini” trimestrali. Il cliente, infatti, decreta con grande autorevolezza lo stato di salute dell’azienda, spesso “spiega” gli andamenti aziendali trascorsi con oggettività ed è in grado di rischiare previsioni future, anche a breve termine, attraverso il suo grado di entusiasmo.

Ecco perché è consigliabile produrre una “trimestrale” del cliente radunando in sintetici e affidabili report i dati che appunto indicano lo stato di salute che la clientela attribuisce all’azienda o al brand.

Che i dati utili siano quelli relativi alla frequenza di acquisto, al valore medio di esso, piuttosto che alla fedeltà o indici ancora più “predittivi” come il Net Promoter Score o il customer experience index (clicca qui) dipende dal caso specifico.

Può essere, ma non in tutti i casi, anche di supporto alle decisioni l’analisi del web, da Trip Advisor al comportamento dei clienti sui social.

L’arte consiste proprio nell’ individuare pochi, significativi, affidabili e autorevoli indici che indicano la salute che il cliente attribuisce all’azienda, monitorarli e portarli all’attenzione degli imprenditori e manager analisti dei risultati trimestrali per i loro giudizi sull’andamento, per le loro previsioni e, naturalmente, come prezioso supporto alle loro decisioni!

Per ulteriori informazioni info”@”praxismanagement.it

PENSARE AL FUTURO FA BENE AL PRESENTE /2

La nascita, sotto questa parte di cielo, della figura dell’artigiano è stato uno dei segni più eclatanti di una civiltà in cui la persona è “unita” come concezione di sé e non divisa in se stessa in “livelli” (ad esempio quelli proposti da tanta formazione aziendale in “sapere”, “saper fare” e “saper essere”).

Dall’ora et labora in poi non ci sono più stati gli scienziati da una parte che studiano, pensano e sanno e gli “operai” che fanno. E di questa splendida eredità cristiana godiamo tutti, ferventi fedeli o miscredenti che fossimo. L’artigiano è uno “scienziato” che fa e da questa unità nella persona si sarebbe poi sviluppato quel Made in Italy che ancor oggi lascia senza fiato clienti di tutto il mondo. E’ per “uno scienziato che fa” che oggi esistono Ferrari, Versace, gli chef stellati e migliaia e migliaia di aziende italiane che hanno il gusto innato della bellezza e dell’innovazione che nasce ogni giorno e che sono quindi figli ed eredi di quell’ora et labora che oggi, in varie forme e più meno consapevolmente, continuano. Se l’ora et labora è nato nelle comunità monastiche ed è arrivato a Gianni Versace, Enzo Ferrari e alle migliaia e migliaia di sconosciuti imprenditori di conosciutissimi prodotti non è sorprendente che l’Università di Harvard, che non ha nel proprio statuto il riferimento a San Benedetto, abbia concluso dopo una rigorosa ricerca che l’innovazione “esce” da comunità aziendali i cui leader sono architetti sociali (abati 4.0?) che le costruiscono giorno per giorno tesi a favorire e valorizzare le frazioni di genio di tutti, personale operativo compreso (IL GENIO COLLETTIVO clicca qui).

Se nella vostra azienda lamentate poco coinvolgimento, scarsa comunicazione fra reparti, predilezione a perseguire obiettivi della propria area perdendo di vista l’obiettivo generale aziendale, poca capacità di “scaricare a terra” idee e decisioni, poca propensione a proposte “dal basso”… Bè non avete bisogno né un corso di comunicazione né uno di change management (so che li avete già provati…), ma di vincere la drammatica separazione nella vostra azienda tra “chi sa” e “pensa” e “chi fa”! Il problema è che non si tratta di una divisione fra colleghi di diversi livelli (convention, cene e tornei di calcetto sono volentieri partecipati), ma una divisione all’interno della persona, spesso proposta e incentivata, appunto, da tanta formazione aziendale che nasce divisa in livelli, come se l’uomo “che sa” non fosse lo stesso di quello che deve saper fare e saper essere! Avete bisogno dell’esaltante avventura di ricominciare da una vostra e interna scuola d’impresa… PENSARE AL FUTURO FA BENE AL PRESENTE!

 

2- Continua

PENSARE AL FUTURO FA BENE AL PRESENTE! /1

L’aveva già detto – anzi scritto – Jim Collins nel suo libro “Good to Great” (tradotto in italiano col titolo “O meglio o niente”). Intervistando, dopo una mastodontica ricerca, i manager di un manipolo di aziende che avevano fatto triplicare nell’arco di 15 anni le quotazioni in borsa delle loro aziende, ha osservato alcune – pochissime ma decisive! – caratteristiche comuni.

Una di queste è il senso del futuro “lungo” (anzi, lunghissimo!) di questi manager fortemente desiderosi e determinati a consegnare la propria azienda alla generazione futura (che non avrebbero mai visto) “più bella, più grande e con dirigenti più bravi di loro stessi”.
Ecco che ne è emerso anche un “profilo umano” di questi campioni di profitti, improntato – incredibilmente – a un assiduo low profile, all’ansia di assumere gente più brava di loro stessi, a utilizzare davanti a ogni decisione (da quella strategica a quella operativa) il criterio del “cosa è meglio per IL FUTURO dell’azienda”.

A guardare i risultati di queste imprese si può quindi serenamente affermare che “pensare al futuro (lungo, anzi lunghissimo) fa bene al presente”. Alla faccia dell’istantaneità a cui tutti ci sentiamo obbligati ogni giorno!

Chi ha a cuore la sconosciuta generazione che verrà, fa una scuola all’interno della propria azienda, affinché la cultura della propria impresa non si perda, ma si approfondisca, si rinnovi e trovi nuovi protagonisti “più capaci di noi!”.

Anche la cultura del cliente e la pratica della Customer Experience non sfugge alla legge “pensare al futuro fa bene al presente” (anzi, all’istante!).

/1 continua

 

 

 

Go to Top