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Mario Sala - page 10

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Partner di Praxis Management, società di consulenza milanese. Da oltre vent’anni anni è impegnato nel retail dei migliori brand del lifestyle nei settori della moda, del food e del design. L’attenzione crescente per i temi relativi al Cliente ha generato in lui un interesse approfondito sul tema della Customer Experience, che lo ha portato a costituire Italian Customer Intelligence e a sviluppare importanti relazioni internazionali sul tema. Il brand, che raduna partner con diverse competenze, sostiene le aziende a progettare, offrire e portare in tutto il mondo una Customer Experience superiore: in una parola, a entrare davvero “nell’Era del Cliente”. mario.sala@praxismanagement.it

CUSTOMER EXPERIENCE, OVVERO LO STUDIO DELLA SALUTE

In questa era di mercati super-saturi con l’offerta enormemente superiore alla domanda nella quasi totalità dei business consumer, vincono i brand che dimostrano di studiare da “numeri uno” al mondo mantenendo promesse sempre più “specializzate”.

Spesso tale specializzazione non riguarda particolari differenziazioni di prodotto, ma riguarda fattori o dimensioni particolari uniche e vincenti in termini di esperienza, appunto di “customer experience”.

Le “vecchie” survey di customer satisfaction, cavallo di battaglia dell’era precedente a questa (Clicca qui) ovvero quella dell’informazione e del marketing, non danno più i favolosi risultati di un tempo.

Chiedendo al cliente la motivazione dei suoi livelli di insoddisfazione bastava, una volta, adeguarsi per far “tornare” il cliente a essere soddisfatto: oggi, invece, ad ascoltare gli insoddisfatti o i moderatamente soddisfatti, ci si riempie di costi, di servizi aggiuntivi, di complessità…E il cliente non riprende a comprare, attratto come è da una offerta alternativa enorme e facilmente accessibile.

È assai più conveniente ed efficace ascoltare e lasciarsi influenzare dai Promoter (Clicca qui) ovvero dagli “entusiasti”, dai fanatici del brand.

In pratica occorre “studiare” la salute, le profonde motivazioni del perché va bene una cosa che va bene! È uno studio appassionante, per nulla banale e che porta alla conoscenza di fattori sorprendenti che ci aiutano a sviluppare i brand e a innovare nella direzione dell’entusiasmo del cliente Promoter che innesca così prodigiosi passaparola.

Anche perché “l’entusiasta” non lo è per sempre ed è anzi molto esigente col “suo” brand che vuol vedere al lavoro per rendere vera in modo sempre nuovo la promessa che lo aveva così convinto all’inizio della sua relazione cliente-brand.

Non siamo abituati a “studiare” la salute, impegnati come siamo a risolvere problemi e “malattie” nelle nostre aziende: ma è proprio lo studio della salute, del perché va bene una cosa che va bene, che ci indica la strada, i criteri e le idee giuste per risolvere i problemi… e i Promoter sono i rappresentanti più autorevoli della salute dei nostri brand!

DIMMI COME DELEGHI E TI DIRÒ CHI SEI! /3

Rimosse le obiezioni alla delega (Cfr. Dimmi come deleghi e ti dirò chi sei! Parte 1 CLICCA QUI e Parte 2 CLICCA QUI), riportiamo i consigli di alcuni campioni della delega davvero consapevoli che il management altro non è che il raggiungimento di obiettivi…attraverso terzi.

  • Chi tira fuori l’ idea giusta o la soluzione è la persona più abilitata a realizzarla: non dare tu subito idee e soluzioni, ma aiuta chi poi deve realizzarle a tirarle fuori lui o almeno a provarci!
  • Non basta dire “COSA FARE”: bisogna raggiungere e far raggiungere chiarezza su quale sia l’obiettivo per cui deleghiamo un compito, il metodo o il processo da utilizzare e…l’obiettivo dell’obiettivo. Se invece di delegare un compito dobbiamo delegare un obiettivo o addirittura una responsabilità…lo schema non cambia: in ogni caso occorrerà, insieme al delegato, raggiungere chiarezza su cosa, come, perché e…sul perché del perché!
  • Occorre formalizzare la fase di presa in carico della delega prevedendo le opportune verifiche e aggiornamento sul grado di raggiungimento di obiettivi o compiti delegati.
  • Chiedersi sempre che vantaggio (o svantaggio) produce l’effetto o il contenuto della delega sull’esperienza dei clienti.
  • Delegare non significa perdere il controllo, nemmeno quando la delega è piena. Se si fallisce, non potrai dire che la colpa è del delegato.
  • Metti ben in chiaro col delegato che sarai sempre disponibile ad aiutare nella risoluzione dei problemi inerenti al contenuto della delega, alla inderogabile condizione che i problemi non diventeranno mai tuoi ma resteranno suoi, perché se diventano tuoi, il delegato non ha più problemi e tu non puoi aiutare una persona che non ha problemi!
  • Crea un clima da “genio collettivo” (CLICCA QUI): allestisci il palco sul quale i tuoi si possano esibire e smetti di esibirti solo tu lasciando i collaboratori meri esecutori. Favorisci la frazione di genio di tutti se vuoi davvero “scaricare a terra” innovazioni e idee vincenti.
  • Fai in modo che le persone non guardino te, ma dove guardi tu, l’obiettivo o lo scenario desiderato. Sennò tiri su dei segretari al tuo servizio, non dei protagonisti della tua impresa.

Buona delega a tutti!

Dimmi come deleghi e ti dirò chi sei! /2

La delega è un principio:

  • organizzativo perché rende più efficienti i processi lavorativi.
  • Formativo perché fa crescere professionalmente i collaboratori.
  • Innovativo perché spinge le persone a trovare, proporre, realizzare soluzioni dando fondo alla propria creatività.
  • Imprenditoriale perché “obbliga” a raggiungere obiettivi con risorse limitate utilizzando tutta la propria intraprendenza.

Teniamo a mente questa definizione per rispondere ad una ad una alle ragioni della non-delega confidate da alcuni imprenditori e manager che vi avevamo mostrato nella prima parte dell’articolo.

  1. “Non delego perché non ho collaboratori all’altezza dei compiti, degli obiettivi e delle responsabilità che mi competono!”

La delega è proprio l’operazione aziendale che più fa crescere i collaboratori.

  1. “Non delego perché la parte dei compiti e degli obiettivi che vorrei delegare è cosi connessa al resto dei miei compiti ed obiettivi che non è separabile ed affidabile ad altri”.

Occorre semplicemente che il collaboratore cui delegare si immedesimi con la totalità degli obiettivi/responsabilità/compiti del delegante, cosicché egli potrà gestire parte di compiti connessi ad altri che gestiscono altre persone.

  1. “Non delego perché serve troppo tempo a spiegare e faccio io che faccio prima, perché non ho tempo”.

Non c’è tempo perché non si delega e quindi c’è ancora meno tempo. È un circolo vizioso…

  1. “Non delego perché sono io che devo rispondere (al mio capo, al mio CdA, ai miei soci…) dei compiti, degli obiettivi e delle responsabilità specifiche che mi hanno assegnato e quindi di certo non posso perdere il controllo”.

Delegare non significa perdere il controllo.

DEFINIZIONE DI DELEGA: La delega è il processo attraverso il quale assegni ad altre persone l’incarico di svolgere delle attività e/o di raggiungere degli obiettivi e/o di assumere delle responsabilità specifiche. Il delegante mantiene la responsabilità ultima di tale attività, obiettivi, responsabilità specifiche (se il «delegato» fallisce, non potrai semplicemente dire «è colpa sua»).

  1. “Non delego perché se poi quello a cui delego fallisce, ne vanno di mezzo tutti”.

Presto ne andranno di mezzo tutti proprio se non si delega, perché i collaboratori non cresceranno e non potranno gestire complessità crescenti garantendo il futuro dell’azienda; il tempo – risorsa costosissima e sempre scarsa – si esaurirà in fretta e né capo né collaboratore potranno esercitare fino in fondo la propria responsabilità rendendosi così complici del fallimento che tanto preoccupa chi per questo motivo non delega.

  1. “Non delego perché se poi quello a cui delego diventa più bravo e veloce e più a buon mercato di me, io che farò?”.

Nessun allenatore vincente viene mai licenziato, ogni manager bravo a delegare fa carriera e viene riconosciuto da molti come maestro e leader, anche da quelli “più bravi” di lui.

  1. “Non delego perché i miei collaboratori non si immedesimeranno mai come me negli obiettivi aziendali”.

Una delle maggiori cause per le quali le persone non si immedesimano negli obiettivi aziendali è perché non partecipano al loro raggiungimento secondo compiti e responsabilità crescenti… In una parola: non ricevono deleghe impegnative.

  1. “Non delego perché sono vent’anni che guido io e star nel sedile di destra mi fa venir l’ansia e sto male…”.

Il fatto che non si sia mai delegato efficacemente per anni e anni, non è un buon motivo per continuare a non delegare.

 

2 CONTINUA

 

DIMMI COME DELEGHI E TI DIRÒ CHI SEI! /1

Perché da mal di pancia? Perché nella delega (o nella maggior parte dei casi nella non–delega) non si può davvero nascondere la propria visione reale del mondo, delle persone, dell’impresa e dello scopo di tutto…propria esistenza compresa! E quando si arriva a questa “carnalità”, gli studi sulla mission, sulla brand promise, su come deve essere il nuovo prodotto da lanciare… rischiano di rimanere splendidi rapporti attuati con una percentuale risibile.

Ecco quindi la malattia di tante aziende che sembrano avere una grande testa e delle gambe, per far viaggiare le idee della testa, fragilissime e pesantissime al contempo.

“Non scarichiamo a terra” si lamentano gli imprenditori dopo aver pagato caro gli studi su come cambiare la propria azienda… “La nostra azienda è come un cinquantenne che si ostina a pretendere il posto in squadra al torneo aziendale di calcetto: la testa ci sarebbe anche, ma le gambe proprio non rispondono…”

Ho fatto una piccola raccolta di confidenze fra imprenditori e manager che mi hanno, chi fieramente e chi dimessamente come si confessasse un’onta, comunicato le ragioni della loro… non-delega: giudicate voi stessi se non si tratti di vere e proprie “visioni del mondo”!

  1. “Non delego perché non ho collaboratori all’altezza dei compiti, degli obiettivi e delle responsabilità che mi competono!”
  2. “Non delego perché la parte dei compiti e degli obiettivi che vorrei delegare è cosi connessa al resto dei miei compiti ed obiettivi che non è separabile ed affidabile ad altri”.
  3. “Non delego perché serve troppo tempo a spiegare e faccio io che faccio prima , perché non ho tempo”.
  4. “Non delego perché sono io che devo rispondere ( al mio capo, al mio CdA, ai miei soci…) dei compiti, degli obiettivi e delle responsabilità specifiche che mi hanno assegnato e quindi di certo non posso perdere il controllo”.
  5. “Non delego perché se poi quello a cui delego fallisce , ne vanno di mezzo tutti”.
  6. “Non delego perché se poi quello a cui delego diventa più bravo e veloce e più a buon mercato di me , io che farò?”
  7.  “Non delego perché i miei collaboratori non si immedesimeranno mai come me negli obiettivi aziendali”
  8. “Non delego perché sono vent’anni che guido io e star nel sedile di destra mi fa venir l’ansia e sto male…”

Se qualcuna di queste ragioni Vi sembra perfettamente… Ragionevole, oggettiva ed inoppugnabile, esultate!

Il problema relativo al fatto che in azienda “non scaricate a terra”, ha un nome e un cognome: il Vostro! Ma, individuato il problema, la storia dimostra che nessuno come voi, in azienda, è in grado di risolverlo…

  1. CONTINUA

NET PROMOTER SCORE AL 94% PER TRAININGPROS

TrainingPros (clicca qui per il sito corporate) è una società di consulenza con sede ad Atlanta, che risponde a un bisogno tanto specifico quanto sentito: la difficoltà, da parte delle aziende, di trovare internamente a chi affidare la leadership di progetti di apprendimento e di sviluppo, specie in una fase come questa in cui tali progetti si moltiplicano, dovendo tutti fare i conti con una necessità di innovare l’esperienza dei propri clienti nella quasi totalità dei business.

TrainingPros ha patrimonializzato al proprio interno esperienze complesse che hanno generato una capacità di leggere e comprendere il bisogno dei diversi clienti in modo davvero convincente. Il loro punto di forza, oltre a questa abilità di comprendere il bisogno, sta nel saper formalizzare in “sfide” memorabili e in obiettivi proprio i progetti di apprendimento e sviluppo che i clienti sottopongono loro, a tal punto che forniscono loro consulenti come leader degli stessi o trovano i talenti adeguati per farlo!

Questa capacità di ascolto e comprensione conquista i clienti in modo spettacoloso: la rilevazione del Net Promoter Score, formalizzata il 25 aprile 2018, è del 94%!

Una prova della loro abilità è data dall’essenzialità e dalla semplicità con la quale, in soli 41 secondi, spiegano in un video la complessità del loro ruolo. Buona visione!

3 BELLE OBIEZIONI E 3 RISPOSTE ANCOR PIÙ BELLE

I “promoter” di un brand sono i “fanatici” di quel brand: coloro che asseriscono che, con una probabilità altissima, faranno passaparola assiduo e positivo, dando voto 9 o addirittura 10 al loro brand. I “passive” sono coloro che danno voto 7 o 8: soddisfatti ma non abbastanza da essere entusiasti e generare passaparola. I “detractor” sono coloro che danno voto da 0 a 6: veri e propri “detrattori”.

La relazione fra la percentuale di promoter e quella di detractor forma uno degli indici più importanti per misurare la salute che i clienti attribuiscono a un brand: il Net Promoter Score (Clicca qui).

I brand più avveduti fan di tutto per raccogliere gli indirizzi mail dei propri fanatici perché sanno bene che la fortuna del brand sta nel dialogare costantemente con loro, con una duplice finalità:

  • costruire e proporre in continuazione una customer experience superiore (ciò che è collegato con frequenza d’acquisto, valore dello scontrino medio, fedeltà del cliente, attrazione di investimenti);
  • avvicinare nuovi clienti attraverso il passaparola dei promoter.

1° obiezione: I promoter sono già conquistati, occorre conquistare passive e detractor!

Risposta: i promoter non sono affatto già conquistati una volta per sempre. Il promoter è entusiasta della relazione con il vostro brand perché è memorabile. Ma, quest’ultima, deve essere memorabile e sorprendente sempre, ricca di novità che vanno nella direzione dei motivi del suo entusiasmo, sennò smette di essere promoter e comincia ad essere passive. È stato invece dimostrato che nei mercati saturi, se “si mettono a posto” i motivi di lamentela dei detractor, non si fa altro che riempirsi di costi e ulteriori servizi senza che il detractor diventi promoter. Questo approccio era tipico dell’era precedente, quella del marketing (Clicca qui), nella quale i mercati non erano così saturi e il cliente così esigente, informato e connesso.

2° obiezione: i promoter sono i fanatici del brand e ci fanno solo i complimenti. Dobbiamo ascoltare soprattutto passive e detractor per capire dove dobbiamo migliorare.

Risposta: mentre i promoter elencano i motivi del loro entusiasmo, in realtà elencano simultaneamente i motivi della loro delusione se i motivi dell’entusiasmo saranno disattesi. Tanto più il cliente è entusiasta di una relazione, tanto più sarà “giustizialista” se questa relazione sarà tradita, diventando un implacabile detractor.  Ecco perché è fondamentale concentrarsi a conoscere bene i motivi dell’entusiasmo anche nel loro lato minaccioso.

Ma il promoter è assai affidabile e autorevole nel suo entusiasmo/critica proprio perché aderisce in modo entusiasta alla brand promise dell’azienda (Clicca qui). Invece le critiche dei detractor partono da promesse, cioè da aspettative del cliente che spesso non sono quelle del brand. Ecco perchè, addirittura, taluni affermano che i detractor non sono “davvero” clienti del brand: essi sarebbero transeunti perché in realtà amano altre promesse!

Questo spiega anche perché i brand con un alto indice di Net Promoter Score hanno promesse chiare, esplicite e mantenute. Senza una brand promise chiara ed esplicita, si avvicina, si confonde e poi si perde il cliente che, per sua natura, è attratto da una promessa in linea con il suo sentire, con i suoi valori.

3° obiezione: ma ne vale la pena? Quanti clienti portano i promoter con il loro passaparola?

Risposta: Tanti, tanti, tanti! Naturalmente il numero dipende da numerosi fattori, tra i quali il primo è naturalmente il tipo di mercato. Ma i promoter, soprattutto, avvicinano al brand amici e colleghi che, specie gli amici, hanno un sistema di valori e preferenze in linea con quelli dell’amico che ha consigliato. Quindi potenziali, ulteriori, promoter! Ovvero, autentici clienti del brand disponibili a una maggior frequenza d’acquisto, a un più alto valore dello scontrino medio e a una maggior fedeltà.

FAST FASHION: PERCHÈ I COLOSSI PERDONO REDDITIVITÀ

Il numero uno e il numero due mondiale del fast fashion perdono in redditività. Certo il numero due perde di più che il numero uno, ma la tendenza dei player del settore fast fashion si rivela analoga a quella di tutti i business fast (fast food, fast casual, fast track, one click, etc.) che, spesso in crescita come fatturato, hanno pesanti battute d’arresto in termini di redditività.

Profitti in forte decremento e negozi in chiusura per H&M, che ha registrato utili operativi in calo di 2 miliardi di euro, circa il 14% in meno rispetto all’anno precedente: è la maggior flessione negli ultimi sei anni pur con vendite superiori del 4%. Il gruppo Inditex, numero uno indiscusso del fast fashion, raggiunge i livelli più bassi di redditività degli ultimi 10 anni, pur con vendite superiori del 9 %.

I grandi player dei business fast, pur investendo in innovazione cifre astronomiche (soprattutto in tecnologia per portar valore alla dimensione della velocità e della facilità dell’esperienza del cliente) sembra non riescano ancora a innovare significativamente per rendere entusiasti i propri clienti dell’esperienza proposta dai loro brand.

L’investimento in tecnologia sugli e-commerce, sulle modalità di pagamento, sullo studio del comportamento del cliente per una sempre maggior tracciabilità di esso, è sempre più percepito dal cliente metropolitano come un requisito piuttosto che come elemento differenziante e portatore di entusiasmo.

Il moderno cliente metropolitano ha paradigmi ben chiari e studiati che informano il suo attaccamento al brand, ricercando, CONTEMPORANEAMENTE, velocità, qualità e novità. Su velocità e qualità i migliori brand dei business fast hanno davvero in questi anni stupito moltissimo sapendo coniugare queste due dimensioni apparentemente opposte, ma sulla dimensione della novità la tecnologia non basta.

Non a caso l’ultimo World Retail Congress, svoltosi a Dubai, ha attestato il “perimetro” all’interno del quale si gioca oggi la competizione che è proprio il perimetro all’interno del quale il consumatore si attende la novità che oggi non trova o trova in misura minore rispetto a brand dei business non fast: una relazione unica, sincera, genuina!

Proprio a questa dimensione relazionale il cliente metropolitano oggi attribuirebbe il valore decisivo, restituendo redditività da record anche ai player del fast fashion.

Ma per ora l’entusiasmo dei clienti Fan (i cosiddetti promoter) si fa più contenuto e ciò spiega perché si assisterebbe in tutti i business fast a un calo del Net Promoter Score anche nei brand più competitivi. Calo che, evidentemente non è imputabile all’incremento del cluster dei detractor (in inesorabile calo in tutti i migliori brand di ogni business fast), ma dal consistente passaggio di clienti promoter al cluster passive, proprio per l’assenza di novità e innovazioni che rinnovino l’entusiasmo per il brand che diventa così, nella percezione del promoter, “normale” e non più “speciale” (con le inevitabili conseguenze su fedeltà, frequenza e “scontrino” medio).

Questa insistenza del cliente per innovazioni che facciano percepire la relazione con il brand “unica, sincera e genuina” potrebbe favorire, nella competizione internazionale del fast fashion, aziende italiane che hanno nel sangue la relazione come la romagnola Teddy che, non a caso, ha varato programmi e progetti ambiziosi che coniugano la dimensione innovativa con quella relazionale.

In ogni caso appare sempre più pertinente il titolo del prossimo World Retail Congress che si terrà nel mese di aprile a Madrid: “Innovate to Win”.

Stay tuned!

MAGNINI: “SMETTERE QUANDO SI È FELICI”

A Filippo Magnini – al Meeting degli imprenditori Cdo Sharing 2018 – viene chiesto dal brillante Alessandro Bracci, CEO di Teddy, come mai avesse smesso con le gare, sorprendendo tutti, almeno un paio d’anni prima del previsto.

Ho smesso perché, essendo felice, ho pensato che fosse il momento buono per farlo!

Grande Magnini! Per la gioia di Alessandro Bracci, strenuo sostenitore della rimessa di ogni delega operativa dopo i 60 anni nella sua Teddy, e qualche pensiero per le centinaia di imprenditori presenti, non tutti di primo pelo… Quando sei felice è il momento buono per smettere e pensare, magari creare, altro: cosa che non si avrebbe la forza di fare con altro stato d’animo esistenziale! Perché, per creare, occorre essere felici!

Solo una piccolissima frazione di imprese italiane arriva alla terza generazione con un assetto proprietario riconducibile significativamente ai fondatori dell’impresa stessa. Certo vi sono molti motivi per questo, ma non ultimo è che imprenditori e dirigenti vicino a chi ha fondato l’impresa proprio non mollano mai, a volte nonostante l’evidenza dell’età e dei conti… Così non si lascia il passo a nessuno al grido taciuto di “Muoia Sansone e tutti i Filistei”.

La verità” – ho sentito più volte – “è che non c’è nessuno né fra i miei figli né fra i miei dirigenti in grado di sostituirmi al momento…”. Ho tante volte chiesto a questi condottieri come mai, visto che, nella stragrande maggioranza dei casi, figli e dirigenti hanno studiato assai di più dei padri imprenditori e mi è stato risposto che per guidare una impresa occorrono delle abilità che i figli non possiedono. Quali? Ecco cosa sciorinano gli imprenditori guerrieri che non si schiodano dal com

ando perché, poverini , non hanno nessuno degno di succedergli: la capacità di ascoltare, di prendere con rapidità decisioni, di vedere il positivo anche nelle situazioni più intricate, di tollerare lo stress, di motivarsi e motivare, di saper valutare le persone, di tirare fuori il meglio dalla gente. Tutte abilità, proseguono con malcelato orgoglio gli imprenditori che non mollano, che non insegnano neanche ad Harvard: “O le hai o non le hai…”.

Già nel 1982, due studiosi americani, Thorton e Byam, hanno dimostrato che le abilità di cui sopra – chiamate abilità sociali perché implicano una abilità di relazione con gli altri o con se stessi – effettivamente dipendono poco dal curriculum scolastico o dall’anzianità in una data mansione e dipendono significativamente, oltre che dal temperamento, soprattutto dall’ educazione ricevuta. I padri imprenditori si lamentano quindi dei figli per una cosa che dipende da loro: l’educazione! (Ma si sa… Non hanno avuto tempo impegnati come sono, da sempre e per sempre, nella loro impresa…). Non a caso Filippo Magnini, continua la sua risposta a Bracci sulla decisione di lasciare lo scettro di capitano della squadra azzurra e di ritirarsi dicendo che, oltre che felice, poteva smettere perché aveva insegnato ai giovani atleti “Tutto quello che io stesso avevo imparato”.

Grande Magnini!

INNOVATE TO WIN? QUESTIONE DI GENIO COLLETTIVO!

Il prossimo World Retail Congress (Madrid , 17-19 Aprile 2018), il consueto raduno annuale dei maggiori retailers del pianeta (“where ideas go global”), ha come tema l’innovazione: “INNOVATE TO WIN”.

Non potrebbe essere diverso se è vero, come è vero, che i retailers globali che per primi hanno proclamato la loro entrata nell’era del cliente (clicca qui), si sono “autodenunciati” nel corso del meeting 2017 a Dubai, asserendo che nonostante i loro sforzi per trasformare le loro aziende in compagnie davvero clientecentriche e con approccio outside in (leggi qui), hanno scaricato a terra davvero poco in termini di innovazione per la concreta e vivida esperienza del cliente coi loro brand.

Come se una concezione sempre più clientecentrica dei grandi retailers stentasse a trovare una sistematica e continua finalizzazione in termini di innovazione significativa, non solo nei processi aziendali  (fossero anche quelli deputati a una maggior conoscenza del cliente), ma proprio nella Customer Experience.

Anche le più rilevanti innovazioni della tecnologia non sempre colgono al 100 per cento le aspettative sempre più esorbitanti dei clienti che, dicono rigorose ricerche, cercano coi brand “una relazione unica, sincera, genuina”. Nell’era dei big-data, anche millenials e generazione Z , desiderano questa autenticità di relazione e si attendono proprio all’interno di questo perimetro le novità e le innovazioni dei brand di cui sono fan.

Proprio il ritardo nella soddisfazione di questa aspettativa sembra stia facendo registrare un abbassamento planetario degli indici di net promoter score (l’indice internazionalmente riconosciuto come indice che misura il tasso di passaparola su cui un brand può contare, clicca qui). Molti fanatici di un brand (appunto i promoter che consiglierebbero il brand ad amici e colleghi con voto 9 o 10), si autodeclassano a passive (voto 8 o 7). Non si abbandona quindi il brand, ma cala l’entusiasmo, proprio in funzione di quell’unicità e personalizzazione della relazione, più che desiderato, oggi “preteso”.

Insomma bisogna innovare davvero, in fretta e nella direzione della personalizzazione della relazione col cliente e a un livello mai immaginato prima.

Come fare? Come fanno le aziende capaci di innovare sistematicamente? Come si comportano i leader di quelle aziende? Sono quelli capaci di suscitare, all’interno della propria azienda, un “genio collettivo”!

Sono quei leader che hanno rinunciato a sperticarsi con parole convincenti e irresistibili a comunicare una visione innovativa (o, addirittura, delle vere e proprie innovazioni da perseguire) e hanno cominciato un lavoro di architetti sociali per fare della propria azienda un luogo, un contesto, un ambiente, una comunità disponibile a risolvere i problemi in modo innovativo e, ovviamente, capace di farlo!

Il “come fare” è il sorprendente esito di anni di ricerche di Linda A. Hill (Professore ad Harvard Business School e tra i primi 10 esperti di management nel mondo secondo Thinkers 50) e che è diventato un libro da non perdere (IL GENIO COLLETTIVO, la cultura e la pratica dell’innovazione. Franco Angeli editore).

Attraverso i capisaldi fatti emergere dalle ricerche di Linda e i Suoi che seguiremo l’avvicinamento al World Retail Congress.

Il primo di essi è ben sintetizzato dal leader di una delle aziende oggetto della ricerca: “Il mio compito” ha detto “è allestire il palco, non esibirmici sopra”.

NEWS AND CUSTOMER EXPERIENCE 2018: UNA RELAZIONE UNICA, SINCERA E GENUINA

Il World Retail Congress del 2017 a Dubai (approfondisci qui e qui– Per il 2018 l’appuntamento è a Madrid con tema: Innovate to Win) si è sostanzialmente concluso in modo diverso dagli anni passati.

Non più “precisazioni” e raccomandazioni sull’omnicanalità e sulla portata della tecnologia per conoscere le “mosse” del cliente (temi, questi, forse dati ormai per scontati), ma un’insistenza su ciò che il cliente più di tutto cerca oggi dalle aziende che sono – o vogliono essere – “brand”: una relazione unica, sincera e genuina.

Questa dimensione relazionale desiderata dal cliente è emersa soprattutto tra i Millennials e la Generazione Z (quelli nati post 2000), generazioni che piano piano acquistano sempre più rilevanza perché stanno entrando negli anni in cui hanno un’alta capacità di spesa, ma, sicuramente, è da considerare un driver generale. Il desiderio di autenticità nella relazione con il brand, infatti, tocca il cliente metropolitano (scopri qui le sue caratteristiche) in ogni angolo del pianeta, indipendentemente da generici e sempre più obsoleti e poco significativi cluster coi quali siamo abituati a segmentare i clienti.

Nell’overdose di comunicazione che tutti noi al contempo apprezziamo e soffriamo, nella “magia” della tecnologia che ci avvicina e quasi ci fa toccare con mano mondi lontani e sconosciuti rendendoli familiari, la richiesta che echeggia, paradossalmente, è proprio quella di una relazione unica, sincera e genuina!

Sono già diverse le storie, le ricerche e le riflessioni che attestano questa tendenza e il conseguente tentativo (anche economicamente vantaggioso) di risposta da parte di brand più piccoli e più grandi (leggi qui, qui e qui). La linea editoriale del nostro magazine, quest’anno, sarà proprio questa: lo studio, le news e gli esempi più rilevanti da tutto il mondo di questo desiderio di autentica vicinanza, quasi o come la ricerca di un negozio di vicinato nel perimetro non della via sotto casa ma di tutto il pianeta!

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